Gli artisti, pittori, scultori e ceroplasti, chiamati ad affrontare la rappresentazione del corpo anatomico, fin dai primi atlanti cinquecenteschi, si sono trovati di fronte a due questioni cruciali, strettamente correlate. Una riguardava la necessità di conciliare le richieste di massima veridicità imposte dall’ambito scientifico con l’intenzione artistica di tensione verso il bello ideale, e l’altra questione, non meno spinosa, era l’avere un cadavere come soggetto da ritrarre.
Riguardo alla prima questione l’artista si trovava a confrontarsi con la teoria estetica, dominante per secoli, di Aristotele che, tracciando una marcata distinzione fra “ritrarre” e “imitare”, condannava questa seconda pratica della copia (mimesis), considerata puramente meccanica e non confacente a un’opera d’arte. All’artista si richiedeva infatti di copiare la natura non per realizzarne dei semplici duplicati, ma per trasfigurarla giungendo a una sorta di idealizzazione o correzione. Autorizzato ad alterare la realtà per nobilitarla, l’artista poteva allora presentare il corpo-cadavere, scarnificato ma rivestito dalla piena dignità conferitagli dalle pose della statuaria classica o della pittura più celebrata, quale soggetto attivo di complesse allegorie sulla vanitas e sul memento mori.
Alle dignitose figure in piedi di anatomizzati proprie degli atlanti del XV e XVI secolo, si sostituiscono nel XVIII secolo gli eccitati cadaveri scorticati (gli écorché), che dichiarano un mutato atteggiamento della società nei confronti dell’idea di morte, chiave interpretativa di ogni rappresentazione anatomica: “Sempre meno essi esprimono il memento mori e sempre di più rappresentano domande confuse e inquiete sulla natura della vita” (P. Ariès). Così nelle illustrazioni dei trattati di medicina contemporanei s’insinuerà la disturbante coppia eros-thanatos, alla ricerca di un congiungimento fra l’esattezza scientifica e l’invenzione artistica di sofisticate ed efferate visioni di dissezioni femminili (vedi le tavole di Jacques Fabien-Gautier d’Agoty e le statue di Giovan Battista Manfredini).
Secondo il dettato aristotelico, quindi, all’opposto dell’invenzione artistica si collocavano il ritratto in cera e la ceroplastica anatomica, sua diretta filiazione, in quanto mere attività meccaniche di copia dalla natura. Entrambe queste produzioni subiranno nel tempo anche la censura di filosofi e storici dell’arte. Schopenhauer, ad esempio, le accuserà di essere “imitazioni ingannevoli”, che impediscono a un’opera di elevarsi dalla materia verso la pura forma, mentre Aby Warburg definirà “sopravvenienza barbarica” l’affollata esposizione di manichini votivi in cera, spesso a grandezza naturale (se ne contavano 600 all’inizio del XVII secolo) che pendevano dalle volte della SS. Annunziata in Firenze, disputandosi la vicinanza con la taumaturgica immagine della Vergine sull’altar maggiore. Tuttavia, sarà proprio grazie alla grande produzione di statue votive in cera che a Firenze fiorirà durante il XVIII secolo la ceroplastica scientifica, con i primi modelli anatomici in grado di garantire la massima veridicità e in grado di accedere, in molti casi, a una indubbia qualità artistica.
Sarà l’arte contemporanea a rimettere in gioco una diversa concezione del ritratto in cera o in altri materiali “morfici”, cioè modellabili su un corpo reale. La cera ha delle qualità esclusive. La sua impronta imprigiona parte del vivente dentro uno strato di materia e in qualche modo ne assume le proprietà, generando una sorta di doppio: non copia la realtà quanto piuttosto opera una vera e propria sostituzione di un corpo o di una sua parte. Per questa peculiarità il calco-ritratto di oggi non discende tanto dalla tradizione del manichino di cera medico-anatomico, quanto piuttosto ci riporta direttamente in quel territorio “prima del tempo dell’arte” (G. Didi-Huberman) in cui l’effigie in cera (l’imago) esprimeva tutta la sua potenza magico-rituale e taumaturgica, come nel caso dell’ex-voto anatomico, che assolve la funzione di sostituire la parte malata con quella guarita e interviene sul futuro per esorcizzare “un tempo ed un ignoto minaccioso” (L. Lombardi Satriani).
Le statue anatomiche in cera di ogni epoca provocano sempre un profondo disagio nell’osservatore. In quanto immagini-repliche di corpi hanno il potere di instaurare un dialogo diretto, senza il filtro di metafore e allegorie, col nostro vissuto. Presenze perturbanti che “esorbitano dai limiti della rappresentazione simbolica” (E. Gombrich), eternamente sospese fra vita e morte, ci rimandano alla finitezza del corpo di cui ognuno fa o ha fatto continua e dolorosa esperienza. (al)