Birgit Jürgenssen
(Vienna 1949-2003)

Ehren - Rede Vito dem heiligen Blutzeugen / Speech in Honor of Vito the Holy Martyr, 1985
libro (1747), pizzo, garza

Estate Birgit Jürgenssen, courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna

Considerata tra le maggiori figure dell'avanguardia femminista internazionale, Brigit Jürgenssen ha preso parte sin dagli anni Settanta ai dibattiti sulle teorie di genere e, affermando una pluralità di soggettività possibili, il suo lavoro si è incentrato sul superamento del dualismo semplificato uomo-donna. Brigit Jürgenssen ha considerato il suo corpo come materia in grado di innescare il dibattito intorno alle nozioni di potere, ruolo e identità. Con una citazione diretta all’immaginario della reliquia e al feticismo dell’oggetto, Ehren - Rede Vito dem heiligen Blutzeugen / Speech in Honor of Vito the Holy Martyr rimanda all’apparato di riferimenti culturali su cui una comunità fonda credenze e rituali capaci di liberare le profonde corde emotive e psicologiche del femminile.

Contenuti speciali

Birgit Jürgenssen. Non so
di Natascha Burger

Da Birgit Jürgenssen. Non so, Prestel, Verlag, Monaco di Baviera, Londra, New York, 2018

 

Bianco. Pupilla cieca. All’interno della cassaforte ottica i desideri srotolano la loro brina. Per la prima volta ci siamo recati a nord o a ovest; la radura aspettava i nostri primi passi... 1

 

Non so è il titolo che Birgit Jürgenssen ha dato alla sua ultima personale nella galleria Hubert Winter a Vienna nel 2001. Due anni più tardi, nel settembre del 2003, l’artista morì all’età di soli 54 anni lasciandosi dietro un ampio e impressionante lascito. La ricchezza di idee, le osservazioni accorte e il costante monologo interiore di Birgit Jürgenssen hanno creato un’opera artistica multidimensionale che fino ad oggi mantiene una fresca ironia, un’eleganza provocatoria, e allo stesso tempo, una presenza discreta.
Amministrare un lascito, questo lascito, è una sfida delicata. Perché ciò significa cercare di capire e tradurre la complessità di una persona, collocarla nella sua storia locale e artistica e comprenderne a mano a mano le relazioni reciproche. Io sono.2 Come dichiarazione d’artista e titolo della suddetta retrospettiva, è una frase che con la sua precisione onnicomprensiva, esprime emblematicamente l’impegno assunto nell’elaborazione di questo archivio. Chi è Birgit Jürgenssen?

È necessario ricostruire e rendere visibile uno sguardo privilegiato sull’opera e sull’immagine, che Jürgenssen ha letteralmente decostruito nella sua complessità.
E Birgit Jürgenssen ha lasciato un’immagine impressionante, un’impronta forte. Come afferma Georges Didi-Huberman: “Non si può capire una tecnica – e dunque anche un’arte – finché non si cerca di considerarla nella sua dimensione antropologica. La stampa è, considerando i suoi metodi e le sue applicazioni, senza dubbio discendente di ‘quella scienza del concreto’ della quale Lévi-Strauss parla nel primo capitolo del suo Pensiero selvaggio. Perché? Perché fare una stampa significa sempre generare una rete di relazioni materiali, dalle quali emerge un oggetto concreto [...], che però si legano ad una serie di relazioni astratte, miti, fantasmi, conoscenze ecc...”.
Nella sua ultima personale, il “pensiero selvaggio” di Jürgenssen e la “rete di relazioni materiali ed astratte” da lei intessuta, il sistema di coordinate fatto di referenze, idee, tracce, risorse, ricorsi e anticipazioni, non sono da subito evidenti. Come spesso accade nell’opera dell’artista, i differimenti semantici e le sovrapposizioni enigmatiche si dischiudono solo a un secondo sguardo. Birgit Jürgenssen era abile nel manipolare lo sguardo e la visione e riusciva con questo a sorprendere. Partendo da questo (ultimo) momento, la definizione del suo modo di lavorare e del suo pensiero emancipato aiutano a chiarire i legami a ritroso, attraverso la sua opera, fino ai suoi primi lavori.
Si costituisce così un’impalcatura con la quale è possibile raffinare la consapevolezza per tracciare, e soprattutto spiegare, l’evoluzione del pensiero e del lavoro di Jürgenssen. È precisamente questo il punto dal quale viene in luce l’eccellente qualità di quest’artista. L’intera opera è attraversata da una grande abilità di metamorfosi e di trasposizione poetica nella sua propria lingua e nel suo linguaggio metaforico, che la contraddistingue dagli artisti a lei contemporanei. Fin dagli inizi si rese conto che non voleva creare né marchi né tratti distintivi: “Il piagnisteo non mi appartiene. Non volevo però neanche fare parte di un gruppo femminista, perché ne ritenevo le possibilità troppo unidimensionali. L’unica cosa che mi sembrava giusta era utilizzare tutti i mezzi a disposizione”.4
Con audacia e curiosità invece che simulazione e strategia, Jürgenssen è riuscita a usare “tutti i mezzi disponibili”. Già all’età di otto anni cominciò a disegnare, per poi continuare a occuparsi di fotografia analogica fino alla fine della sua produzione artistica. “Tutti i mezzi disponibili” includevano la pittura, diverse tecniche fotografiche,5 sculture e installazioni, per finire con i “nuovi mezzi”, cioè video e fotografia digitale. Le “nuove” tecnologie con nuove possibilità per realizzare artisticamente le sue idee – preferibilmente in modo autarchico – sono state per Jürgenssen un impulso costante per quasi quattro decenni e, soprattutto, una sfida continua con se stessa. Sembra quindi indicativo che, da studentessa della classe di grafica di Franz Herberth, agli inizi degli anni ‘80, diventi assistente di Maria Lassnig prima, per poi insegnare nella master class di Arnulf Rainer, istituire la classe di fotografia all’Accademia di Belle Arti di Vienna e, infine, insegnare nella classe d’arte multimediale.
Indipendentemente dal mezzo artistico, l’ultima mostra allestita da Birgit Jürgenssen, il cui titolo a prima vista sembra contenere un certo scetticismo, Non so, esprime la sua posizione in modo chiaro e raccoglie molte cose. “Tutto comincia con la visione. Il segreto è il visibile, non l’invisibile”.6 Jürgenssen lavora alle sue idee in modo seriale e a riprese continue. Proprio il lavoro fotografico in due parti, intitolato Zebra, mostra in modo esemplare le sue riprese dei contenuti interni alla sua opera. Un lavoro degli anni ‘70, creato sotto la chiara influenza surrealista di allora, viene ripreso, ripensato ed esposto tre decenni più tardi. Jürgenssen lavorava “in loop”, tutto rimaneva in movimento, i temi venivano messi in disparte, ripresi, rimessi in disparte, interpretati in modo nuovo.7
Nell’approccio surreale al mascheramento nella fotografia digitale d’animazione computerizzata del 2001, si compie un chiaro ritorno a un’icona dell’opera di Birgit Jürgenssen, e precisamente a uno dei primi autoritratti: Senza titolo (Io con pelliccetta). Ancora negli anni ‘70, dopo i suoi primi viaggi a Parigi e sotto la forte influenza del surrealismo francese, (una “poesia ispiratrice” per Birgit Jürgenssen),8 si è fotografata come essere ibrido. Metà persona, metà animale. L’apparente cambio di identità non viene però realizzato completamente. La metamorfosi è limitata al solo viso come mezzo espressivo e sottolinea chiaramente l’antagonismo fra uomo e animale. E questo vale sia per la fotografia performativa che, volutamente, per il titolo: Io (umano) con pelliccetta (animale). La pelliccetta femminile, elegante e surreale,9 si trasformerà anni dopo in una zebra “cocciuta e indomabile”.10 Il ritaglio dell’immagine si limita ancora al formato verticale e la grafica raster mostra la testa e il busto dell’artista, nuovamente in una chiara trasformazione del divenir-animale. Questa volta la metamorfosi non si limita alla faccia e a una maschera, perché Jürgenssen coinvolge tutto il busto nel mascheramento.
Fra questi due lavori ci sono ventisette anni di produzione artistica. Ogni volta che si parla di un filo rosso o piuttosto di un intreccio nel lavoro di Birgit Jürgenssen, mettendo a confronto questi due lavori fotografici, si capisce molto bene l’organicità del suo modus operandi. Un continuo desiderio di usufruire di tutti i mezzi espressivi attraverso sperimentazione, problematizzazione e rielaborazione.
Non stupisce che Birgit Jürgenssen riprenda la metamorfosi in una versione rielaborata digitalmente, in riferimento alla “pelliccetta”, visto che questo lavoro fotografico era per lei di grande valore. Rispetto a tante artiste della sua generazione che si sono fatte notare per essere apparentemente più coraggiose, espressive e rumorose, Birgit Jürgenssen si sentiva più in sintonia con Meret Oppenheim o Louise Bourgeois, che considerava “più poetiche, meno dirette e più sovversive”.11 La stima personale per Meret Oppenheim e il legame con le idee di quest’ultima, vengono espressi con una dedica.12

 

Horror Vacui – superficie bianca.

“Non so.”
Cosa non sa Birgit Jürgenssen? Cosa la rende insicura? Birgit Jürgenssen annuncia immediatamente i suoi dubbi e per la mostra sceglie un titolo che, in quanto spettatori, ci dovrebbe lasciare dubbiosi, nonché irritati e curiosi. I lavori presentati in quella mostra non hanno dato delle risposte chiare. L’apparente insicurezza riguarda forse la scelta dei “nuovi mezzi” come video e fotografia digitale che, per la prima volta, ha usato per un progetto espositivo. Sono forse le nuove forme espressive che lasciano dubitare la Jürgenssen? Quando le venne domandato durante un’intervista, se stesse lavorando a uno o più temi, Jürgenssen rispose che per la mostra alla galleria Hubert Winter stava lavorando al tema della fotografia analogica e digitale e che, per la prima volta, avrebbe esibito delle foto digitali in combinazione con un film in 16:9.13
A parte l’insicurezza manifestata e i dubbi espressi – in chiaro riferimento a Socrate (“Io so di non sapere”) o Kierkegaard, il quale usava l’ironia come mezzo per distanziarsi – questi dubbi e questo non-sapere, che Birgit Jürgenssen cerca di simulare anche con il titolo scelto per la mostra, si risolvono in modo ironico. E questo perché l’artista si muove con destrezza e senza dubbi fra i mezzi della fotografia analogica e di quella digitale.
Anche se Purkersdorf, Venezia e Madison Avenue (per citare solo alcuni titoli), a prima vista non sembrano essere connesse tra di loro e sono in apparenza esibite indipendentemente le une dalle altre (ricordano il concetto di eterotopie di Foucault, raccogliendo nello stesso luogo più spazi in realtà incompatibili),14 nella concezione delle mostre Birgit Jürgenssen non lasciava niente al caso, non faceva esperimenti e non era affatto insicura. Ogni mostra è stata concepita in anticipo in ogni dettaglio, delineata meticolosamente e trascritta. In questo contesto i quaderni delle annotazioni erano dei compagni importanti per lei. In quanto pensatrice e lavoratrice instancabile, Birgit Jürgenssen con i suoi quaderni ha accumulato una grande quantità di idee. Fra disegno e scrittura formula bozze di pensieri per i suoi lavori, impulsi per i suoi studenti dell’Accademia o perfino concetti elaborati per mostre imminenti. Nel lascito di Birgit Jürgenssen si trovano a oggi oltre ottanta di questi quaderni e blocchi da disegno. Un significativo documento del suo lavoro e del suo pensiero, che permette una visione soggettiva e personale del suo modo di pensare. In quanto lettori si ha subito l’impressione che “il quaderno offra un racconto intimo, un approccio più rapido all’anima della persona che prende appunti e, allo stesso tempo, un accesso più veloce alla realizzazione delle sue idee e dei suoi risultati. È come se si fosse resi partecipi dei segreti di un laboratorio d’alchimia, animato dai suoi capricci umani e dalle sue debolezze”.15 Questi segreti ci danno un’immagine della Jürgenssen come lettrice erudita, pensatrice bibliofila e fanno intravedere il suo processo di apprendimento. Il lavoro intensivo con questo archivio personale rende visibile il confronto perpetuo della Jürgenssen con scrittori, filosofi, etnologi e teorici. Citazioni e poesie vengono annotate accanto a pensieri fugaci. Per Jürgenssen la letteratura era una passione insaziabile e una parte irrinunciabile della sua vita artistica: “Ho cominciato molto presto a interessarmi di letteratura e arte surrealista, e quindi i miei lavori sono anche nati da questa alternanza fra letteratura e quotidianità. Era impossibile per me disegnare senza avere in testa un pezzo di letteratura”.16
Oggi questi appunti personali costituiscono una fonte impressionante e uno stupendo ritratto della complessità dei suoi interessi intellettuali ed artistici. È possibile rivivere l’evoluzione di un pensiero e far luce sulla genesi e i rituali lavorativi dell’artista. Un processo libero, caotico e poetico, che sottolinea l’acutezza e la sensibilità di Jürgenssen.
Anche per la mostra Non so Birgit Jürgenssen annota prima un pensiero apparentemente fugace, che però diverrà il titolo: “die Farbe WEISZ”. Giochi di parole, spostamenti semantici, aforismi e omonimie sono per Jürgenssen un lavoro continuo e un approccio surrealista nell’uso dei vari livelli semantici di concetti per il suo lavoro artistico. Accanto al tema della fotografia analogica e digitale (come “una” strategia possibile) è il colore bianco a costituire il principale punto di partenza per le riflessioni dell’artista riguardanti la concezione della mostra e, in questo senso, un mezzo inequivocabile per associare i suoi lavori discorsivi in modo diretto. “Non è il bianco che elimina o sospende l’oscurità?”.17
Il colore “bianco” ha un’importanza particolare e crea un vademecum per i visitatori attraverso la mostra. Assieme al colore bianco il motivo più palese è costituito dalla neve, un mezzo che vela e copre, una trasparenza gelata. Sia in modo diretto come titolo del video Bufera di neve, sia come Leitmotiv nella fotografia digitale X-Mahl, una fotografia stampata su tela di lino che dirige e travia la vista. Si vedono tronchi di betulla “bianchi” incrociati a terra. Essendo una foto scattata da sopra, dispiegata e presentata in formato grande, lo sguardo degli osservatori viene irritato dalla prospettiva. La fotografia digitale riceve così un qualcosa di pittorico, dato che è stata stampata in modo sfocato e permette uno sguardo completo solo da una certa distanza. Una scultura di neve, come è stata commentata da Birgit Jürgenssen,18 con due prospettive. Una via incrociata che offre due possibilità, ma senza direzione. Insicurezza? Non so. Birgit Jürgenssen usa questi (per lei) “nuovi mezzi” in modo manipolativo. Ne risultano così fotografie digitali non chiare, sfocate, che generano una dinamica inquietante e che non sono definibili in modo chiaro. Movimenti sfocati, riflessioni, che affascinano la Jürgenssen e allo stesso momento meravigliano attraverso l’apparenza illusoria di uno sdoppiamento, come per esempio in Venezia.
Nel preparare la mostra Jürgenssen aveva annotato: “Yves Klein, la superficie vuota.” La superficie vuota e bianca è stata allestita da Yves Klein nel 1961 in forma di spazio radicalmente bianco nel museo Haus Lange di Krefeld. Uno spazio che confonde lo sguardo allo stesso modo, anzi, porta a una cecità simile a quella causata dalla neve. Un white cube che dissolve i limiti di pareti e angoli e che rende possibile l’esperienza del visibile e allo stesso tempo dell’invisibile, del vuoto, solo attraverso pure emozioni. Horror Vacui – la paura del nulla, del vuoto. Birgit Jürgenssen è rimasta ovviamente affascinata dall’idea di una superficie bianca e vuota, così da farne una sua versione di “superficie immaginifica”, che è poi stata formulata ulteriormente nel suo video Bufera di neve.
Protetta e sicura nel suo studio ha filmato l’impetuoso, freddo e rumoroso nevischio.
Da una parte “[la finestra come] riparo che suscita sentimenti quando la apriamo e quando andiamo al di là della sua protezione con lo sguardo, dall’altra, le profonde e ripetute esperienze che sono diventate per noi l’immagine preferita dell’Altro, del Fuori e del Nuovo”.19

 

Tattilità, testualità.

Il video come mezzo d’espressione era disponibile già a partire dal 1970, Birgit Jürgenssen lo userà per la prima volta nel 1997.
“Chiaramente possiamo vedere l’immagine sotto forma di ‘immagini in movimento’, ma come nel film il movimento proprio non è percettibile, è un’illusione ottica. Il movimento viene generato da un rapido susseguirsi di una serie di immagini leggermente diverse fra di loro. Alla televisione (norma europea) tutto questo risulta in 25 immagini singole che si susseguono rapidamente. In altre parole: In un secondo passano davanti agli occhi dello spettatore 25 immagini. A questa velocità, l’occhio non le percepisce più singolarmente e viene generata l’impressione di un movimento continuo”.
Sembra che l’effetto delle “immagini che si susseguono velocemente”, che simulano un movimento, venga completamente capovolto nel suo video Bufera di neve, e che provochi intenzionalmente l’effetto contrario. Il frammento d’immagine resta fisso e il movimento viene solamente generato dallo scintillare del nevischio. L’immagine mostrata resta invariata. Nella mostra il video è stato proiettato su una tela bianca: così Birgit Jürgenssen é riuscita a generare un’ulteriore stratificazione dell’immagine dell’installazione e a rinforzare l’impressione di una superficie immaginifica bianca. Il frammento di una immagine statica, un fermo immagine, rumori di strada, una tempesta bianca, filmata dalla finestra dello studio dell’artista. Per otto minuti. Dopo circa quattro minuti una sovrapposizione verbale. Si sente la poesia Der Winter (L’inverno) di Friedrich Hölderlin.

Se non viste e ora passate sono le immagini della stagione, arriva la durata dell’inverno il campo è vuoto, la visione è più mite,
e tempeste soffiano intorno e temporali.
Come un giorno di riposo, così è la fine dell’anno
come il tono di una domanda, affinché questo si compia, allorché si mostra il divenire nuovo della primavera, così brilla la natura con il suo splendore in terra.
Con sudditanza Scardanelli.
24 aprile 1849 22

La poesia annuncia l’arresto del tempo, una temporalità che va a perdersi completamente anche nel video. Lo spettatore da una finestra fissa con lo sguardo una parete di neve bianca. Non succede niente. Nessuna trama comprensibile, nessuna narrazione. “È la calma della natura” della quale Hölderlin parla anche in un’altra poesia; è la calma della natura dei tronchi di betulle innevati, il silenzio di una foresta che possiamo ritrovare nei lavori fotografici Purkersdorf e X-Mahl. La già citata “alternanza fra letteratura e quotidianità”,23 che per Birgit Jürgenssen costituiva un importante strumento per il suo pensiero e per il suo lavoro, è riconoscibile in questo video. Attraverso l’allestimento del video proiettato su un tessuto da sipario, Jürgenssen produce uno stimolo tattile (Textur), al quale la voce maschile aggiunge un ulteriore livello verbale.

 

Vedere, udire, sentire.

Lavorare con diversi livelli era per Jürgenssen molto importante. Livelli in sé differenti vengono sovrapposti con luci e ombre, proiezioni sul corpo e l’uso di liquidi o tecniche di collage. Il rivestimento della fotografia con lattice o stoffa crea uno stimolo ottico, erotico e soprattutto tattile. Il rivestimento della fotografia, della superficie fredda della carta fotografica con garze traslucide, produce un momento voyeuristico, un’illusione anche malgrado la realtà. Si vorrebbe aprire il sipario e guardare dietro.
“Il contatto fisico è un prerequisito fondamentale per il tatto. Ciò che è toccato si mostra come unica realtà. Per questo il senso del tatto ha un’importanza maggiore, rispetto agli altri sensi, per la nostra fede nella realtà del mondo esterno. Toccare è prendere contatto, il non toccare in quanto divieto è la tentazione maggiore”. Per Birgit Jürgenssen l’uso di più strati e livelli produce un condensamento, porta a focalizzare la percezione sul nucleo.25 Uno di questi lavori fotografici “condensati” (esposto nella personale e tutt’ora enigmatico), è la fotografia digitale Senza titolo, che rimanda concretamente a una serie di lavori di Birgit Jürgenssen. Classifiche, sviluppata tre anni prima e raffigurante una cruda lotta fra donne nude, è riutilizzata e rivalutata continuamente nella fotografia performativa. Tuttavia questa volta Jürgenssen non proietta le lotte sulla parete con una lavagna luminosa per poi fotografare la proiezione, ma è lei stessa ad entrare nel campo visivo. Una tuta bianca fa di lei un supporto per immagini “neutro”, sulla cui parte posteriore avvengono le lotte fra donne. Un condensamento di livelli, di superfici di proiezione. Viene poi aggiunta alla “scena di lotta” una striscia a fumetti di coppie di occhi stupefatti e spalancati. Inorriditi, sofferenti e impauriti questi rispecchiano le emozioni delle lotte e fissano gli osservatori. Proiezione su proiezione, una tecnica di collage che alla fine è resa compatta a livello fotografico.
Nell’ultima personale non sono necessariamente individuabili in modo chiaro né i significati né la narrazione. Allusioni nascoste sorprendono gli osservatori e progettano non soltanto a livello di mezzi, ma anche di contenuti, una complessità in un primo momento inattesa. Una varietà di mezzi, il colore bianco e la natura sono nella mostra costantemente interconnessi; la presenza visiva dei lavori e lo sguardo irrequieto suscitato da Jürgenssen, producono qualcosa di impetuoso. “L’arte dal Mondo di mezzo (Zwischenreich), la vita privata come freno, il gioco come sfida, la simbologia come chiave consegnata solo successivamente, che verrà di nuovo portata via”.26 Una chiave di lettura dell’opera di Birgit Jürgenssen è senz’altro la natura.

 

Senti l’erba che cresce?

Seguendo il principio di Lévi-Strauss, secondo cui le società arcaiche sono superiori a quelle occidentali per via del legame con la natura, la medesima consapevolezza è rintracciabile come punto di riferimento costante anche nel pensiero e nel lavoro di Birgit Jürgenssen. La natura nell’opera di Birgit Jürgenssen non è soltanto elemento di congiunzione nella mostra, ma piuttosto il lato narrativo, l’ispirazione e la costante; un punto di partenza e di arrivo.
Nel 1968 è stato creato Senti l’erba che cresce?, uno dei suoi primi lavori. Senza titolo, l’ultima foto di Birgit Jürgenssen, è stata scattata nel 2003, sei giorni prima che morisse. Questi due lavori possono essere considerati come delle parentesi nel lavoro di Birgit Jürgenssen. Si intravede già nel collage Senti l’erba che cresce? l’interesse formale di Jürgenssen nel ricongiungere livelli semantici differenti, una prassi alla quale resterà fedele fino alla fine. Nelle successive realizzazioni non saranno più attaccati strati di immagini provenienti dal suo deposito, ma singoli strati messi assieme su un livello, quello fotografico. Il collage, una delle tecniche che hanno plasmato la modernità, era già stato usato dal cubismo sintetico nel 1912. Un mezzo stilistico utilizzato prima degli altri da Pablo Picasso e Georges Braque. Il legame con Pablo Picasso non sorprende, visto che già da giovane si era avvicinata al maestro, imitandone anche l’opera.
Durante la sua gioventù Birgit Jürgenssen cominciò infatti a disegnare i primi schizzi in un quaderno scolastico. È nato così l’affascinante lavoro di una bambina di otto anni, che è stato da lei spensieratamente intitolato BICASSO Jürgenssen. Da bambina, essendo soprannominata “Bi”, entra in questa giocosa simbiosi nominativa con Picasso. Il piccolo quaderno scolastico verrà riempito pagina dopo pagina con citazioni in immagini del pittore spagnolo. Nacque così il primo quaderno di schizzi che anni dopo verrà pubblicato come facsimile.
La complessità del collage, assieme al titolo Senti l’erba che cresce? che evoca un silenzio assoluto, mostra chiaramente il collegamento produttivo di Jürgenssen con la natura. Un autoritratto accanto a diversi ritagli d’immagine presi dalla sua raccolta lasciano intendere riferimenti e interessi di quel tempo. Sono “le peculiarità morfologiche, i casi e le soluzioni individuali”27 che complicano il lavoro artistico di Jürgenssen e ne rendono la lettura complessa. Iconograficamente la candela può essere intesa come simbolo di vita, una gru in volo è considerata sacra nella mitologia giapponese ed è venerata come simbolo di fortuna e longevità. Le pietre sono simbolo di costanza, forza e potere. Jürgenssen optò per una delle pietre preferite di Georgia O’Keeffe, che presenta nel palmo della sua mano. La pittrice americana con il suo profondo e simbolico riferimento alla natura deve aver impressionato la Jürgenssen, giacché è visibile una seconda volta di profilo in basso a bordo immagine.
I palmi delle mani delle persone sono dei luoghi singolari e misteriosi. Segnati dalla natura. Nel caso di O’Keeffe coperti dalla natura. Anche Birgit Jürgenssen è stata affascinata dalle cosiddette linee della vita e le riporta in vita nel disegno Alberelli – Linee della vita. Da un punto sensibile nascono alberelli fiorenti che verranno piantati in natura. La parte interna della mano distesa resta vuota. Queste linee, che si presume svelino il destino di una persona, vengono lasciate o trasmesse alla natura. Il disegno delle linee sulla mano non segue un’ordine logico. Nella fotografia in bianco e nero le linee del destino sono, per così dire, coperte dalla natura; nel suo frammentario disegno del 1978 il titolo poetico Linee della mano / Linea della vita / Mappa per indovini evoca questo luogo misterioso.

 

Pensare in modo selvaggio.

“Quello che io ho cercato di definire con Pensiero selvaggio non è attribuibile a nessuno in particolare, né ad una parte né ad un tipo di civilizzazione. Non ha assolutamente un carattere predicativo. Direi piuttosto che con Pensiero selvaggio definisco un sistema di postulati e assiomi necessari per la fondazione di un codice, il quale permetterebbe di tradurre con la minima perdita possibile l’altro nel nostro e viceversa, e cioè l’insieme delle condizioni con le quali possiamo capirci meglio l’un l’altro; è naturale che rimanga sempre un residuo”.28
Il “pensiero selvaggio” che Birgit Jürgenssen ha usato come fondamento per il suo “codice” è un risultato del suo marcato spirito di osservazione, del suo approccio critico altamente riflessivo e del suo processo investigativo. I Tristi tropici (1955) e Il pensiero selvaggio (1962) di Claude Lévi-Strauss sono stati fonti di continua ispirazione per Jürgenssen, che li ha usati in maniera ricorrente nel suo lavoro. Il già menzionato sistema di coordinate di Birgit Jürgenssen che consiste in un legame forte con la natura, nelle stratificazioni d’immagine poetiche, nella sua singolare e ispirata tecnica di collage nonché nella sua fascinazione per l’etnologia e l’antropologia, la fotografia come mezzo più potente, il motivo uomo-animale e la maschera come mezzo espressivo ricorrente – anche come simbolo della macchina fotografica – si riconosce in un collage digitale fino ad oggi inedito, proveniente dall’archivio dell’artista. In uno dei suoi quaderni Birgit Jürgenssen annota:

Ritratti di gatti: Olga+io+macchina fotografica Olga+maschera
Io+maschera da volpe
C.L.Strauss > bambino + scimmie

LA MACCHINA FOTOGRAFICA COME MASCHERA – Fichte

Come punto di partenza troviamo il materiale fotografico di documentazione del viaggio in Amazzonia di Claude Lévi-Strauss del 1939, che si trova nell’ampio deposito di Jürgenssen. Il dettaglio di una fotografia in bianco e nero mostra una piccola bambina dei Nambikwara29 che porta in testa il suo animale domestico, una piccola scimmietta di lana.30 Anche Birgit Jürgenssen si ritrae con il suo animale domestico in testa, la sua gatta Olga, che in numerosi altri lavori fa da emittente per le sue inquietanti creature ibride. Come ulteriore punto chiave del suo collage del 2002 l’artista annota “Io+maschera da volpe”. Con ciò intenderà forse il suo primo autoritratto con pelliccetta? Sicuramente è un punto di partenza per il suo “pensiero selvaggio”, però qui si riferisce in realtà all’autoritratto con la maschera da volpe. Durante i preparativi per la mostra Non so, accanto alla grafica raster digitale di una zebra, Jürgenssen ha riutilizzato nuovamente questa tecnica. Un tentativo che non voleva/doveva risultare in una fotografia digitale conclusa ma che, anche in questo caso, funge da filo conduttore per il “mascheramento”.
L’ultimo commento “LA MACCHINA FOTOGRAFICA COME MASCHERA – Fichte” apre una nuova pista che può essere perseguita nel lavoro di Birgit Jürgenssen. Questa ricerca finisce con Hubert Fichte, scrittore ed etnologo tedesco. Birgit Jürgenssen si interessava a un ritratto fotografico di Leonore Mau che ritrae Fichte con una maschera africana. Il suo viso è presentato coperto a metà e la maschera è tenuta in mano come una macchina fotografica. L’etnologo si presenta metà coperto e, dunque, la sua identità non sparisce completamente. Birgit Jürgenssen non usa la maschera come macchina fotografica ma, al contrario, la macchina fotografica come maschera. L’apparecchio ottico che si immette fra l’osservato e l’osservatore. La macchina fotografica fa parte della competenza principale di Birgit Jürgenssen e viene usata per riflettere e ironizzare su se stessa. Il soggetto rimanda alle prime serie fotografiche di Jürgenssen con fotografie fatte di fronte a uno specchio e usate per l’autoanalisi. In questo lavoro più recente Birgit Jürgenssen si occupa più che altro del mascheramento, del nascondersi dietro a una macchina fotografica; ed è inoltre “interessante porsi dei quesiti riguardo all’identità della fotografia”.31
Confrontando queste due fotografie non solo viene in luce l’interesse di Birgit Jürgenssen per Lévi-Strauss, ma anche “il confronto di una realtà con un’altra versione di questa”.32 Integrati nella natura, i due ritagli di foto trovano un livello comune, la loro base e la loro provenienza. Come già avvenuto durante la preparazione di Purkersdorf per la mostra Non so, Jürgenssen si concentra esclusivamente sulla rappresentazione frammentaria del bosco e, anche se qui è ancora occupata con punti di fuga differenti, confusioni e un’antologia della vista, usa Pezzo di bosco per altri collage generati al computer. Accanto a momenti erotici e voyeuristici, Jürgenssen integra anche in modo ironico e critico i suoi ritagli di immagini in bianco e nero nello scenario boschivo.
“Che lo si condanni o che ci renda felici, esistono sempre delle zone nelle quali il pensiero selvaggio e altre specie selvatiche sono relativamente sicuri: è così nell’arte, alla quale la nostra società dà il ruolo di parco naturale, con tutti i vantaggi e gli svantaggi legati a un’entità artificiosa di questo genere; è così in molti settori della vita sociale non ancora riordinati, dove, in seguito all’indifferenza o all’impotenza e spesso senza che ce ne si accorga, il pensiero spontaneo e selvaggio prospera ancora”.33
L’ultima mostra di Birgit Jürgenssen testimonia “senza ombra di dubbio” le sue qualità e la sua complessità nell’uso dei mezzi e dei modi espressivi. Al suo tempo Jürgenssen era imprevedibile ed informata. Quello che rimane è: “Io sono.” – “Sono i risultati personali che contano. Alle fine restano solo il buon disegno, la buona foto, il buon lavoro”.34

 



  1. La citazione è tratta da una raccolta di cinque testi poetici di Michel Butor (Fenêtres sur le Passage Intérieur, Bois-de-Champ, Aencrages & Co, 1982), e utilizzata per la cartolina di invito della mostra Ich weiß nicht (Non so) tenutasi presso la galleria Hubert Winter, Vienna, 2001.
  2. Si veda il testo di Gabriele Schor nel presente volume, p. 67.
  3. Georges Didi-Huberman, Ähnlichkeit und Berührung, Colonia Dumont Verlag 1999, p. 17.
  4. Rainer Metzger, “Birgit Jürgenssen: ›Wie erfährt man sich im Anderen, das Andere in sich?‹ Ein Gespräch mit Rainer Metzger”, in Kunstforum International, vol. 164 (2003), pp. 234–247, p. 245.
  5. Si veda il testo di Ninja Walbers nel presente volume, pp. 223–250.
  6. Birgit Jürgenssen, “Pulsschlag einer Sinnlichkeit”, in Linzer Institut für Gestaltung (a cura di), Schmuck – Zeichen am Körper, Vienna 1987, p. 234.
  7. Birgit Jürgenssen in un colloquio con Doris Linda Psenicnik il 21. 12. 1998, inedito, Estate Birgit Jürgenssen, Vienna.
  8. Ibidem.
  9. Si veda Susanne Greeves, Dreamers Awake, catalogo della mostra (Londra, White Cube, 28. 06.–17. 09. 2017), Londra, White Cube, 2017, p. 10. L’importanza per esempio della pelliccia nella storia dell’arte si caratterizza come segue: “[...] obsessive use of fetishistic objects or materials (hair, stockings, gloves, velvet and fur) to empower the female self and queer desire, as well as their irreverent playful dare to the spectator to ›please touch‹”.
  10. www.e-periodica.ch/ cntmng?pid=wsw001:1985:7::303, (ultima consultazione: 11. 09. 2018) – Grazie a Melanie Wagner.
  11. Rainer Metzger, op. cit., p. 245.
  12. Si veda la copertina del presente catalogo, nella quale è pubblicata un’ulteriore versione della “pelliccetta” di Birgit Jürgenssen.
  13. Intervista inedita con Christine Braunersreuther per la mostra Produkt Muttertag, Vienna Museo Nazionale di etnologia, 2001.
  14. Cfr. Michel Foucault, Die Heterotopien. Der utopische Körper. Zwei Radiovorträge, Berlino, Suhrkamp Verlag, 2013, p. 14.
  15. Michael Taussig, Michael Taussig: Fieldwork Notebooks: 100 Notes – 100 Thoughts: Documenta Series 001, Ostfildern, Hatjes Cantz, 2011, p. 17.
  16. Felicitas ThunHohenstein, “›Alles fließt, bedingt und durchdringt einander ...‹ Felicitas Thun-Hohenstein spricht mit Birgit Jürgenssen”, in Carola Dertnig, Stefanie Seibold (a cura di), Let’s Twist Again. Was man nicht denken kann, das soll man tanzen. Performance in Wien von 1960 bis heute, Gumpoldskirchen/ Vienna, D.E.A. Kunstverlag, 2006, pp. 272–279.
  17. Ludwig Wittgenstein, Remarks on Colour / Bemerkungen über die Farben, Berkeley, University of California Press, Los Angeles 2007, p. 15; trad. it. Osservazioni sui colori, Torino, Einaudi, 2000.
  18. Da un quaderno di Birgit Jürgenssen: Three Subject Notebook, 2000, Estate Birgit Jürgenssen (sk43), non impaginato.
  19. Bernd Behr, Eckhard Diesing, Vito Orazem, Peter Zec (a cura di), Welt als Pattern, Drensteinfurt, Huba Production, 1984, p. 96.
  20. Engel, 1997, video; sviluppato per la mostra “Engel, Engel” alla Kunsthalle di Vienna, 1997.
  21. Wulf Herzogenrath, Evelyn Weiss, Kunst bleibt Kunst. Aspekte internationaler Kunst am Anfang der 70er Jahre. Projekt ‘74, Colonia, Wallraf-Richartz-Museum, 1974, p. 70
  22. Der Winter (L’inverno) fa parte di un ciclo di sei poesie sull’inverno di Friedrich Hölderlin; nel video di Birgit Jürgenssen la poesia è stata recitata da Simon Frearson.
  23. Citato in Felicitas ThunHohenstein, op. cit., p. 15
  24. Tratto da un testo di Birgit Jürgenssen, Dolce Tocco, 2002, Estate Birgit Jürgenssen
  25. Birgit Jürgenssen in un colloquio con Doris Linda Psenicnik il 21. 12. 1998, inedito, Estate Birgit Jürgenssen, Vienna.
  26. Tratto da un colloquio sull’arte di Birgit Jürgenssen “Kunst aus dem Zwischenreich...”, in 9 & 9. Vienna, catalogo della mostra (Vienna, Galerie Hubert Winter, 1982), non impaginato
  27. Georges Didi-Huberman, op. cit., p. 28.
  28. Claude Lévi-Strauss, Das wilde Denken, Francoforte sul Meno 1973, p. 2; trad. it. Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964.
  29. Un popolo indigeno in Amazzonia.
  30. Cfr. Claude Lévi-Strauss, Brasilianisches Album, Monaco, Vienna, 1995, p. 154.
  31. Birgit Jürgenssen in un colloquio con Doris Linda Psenicnik il 21. 12. 1998, op. cit.
  32. Birgit Jürgenssen, in Manfred Schmalriede, Silke Schmalriede (a cura di) Ausst.-Kat. 2. Internationale Foto-Triennale Esslingen 1992. Erfundene Wirklichkeiten, Stuttgart, Edition Cantz, 1992, pp. 106–109, p. 19.
  33. Claude Lévi-Strauss, Das wilde Denken, op. cit., p. 253.
  34. Birgit Jürgenssen in colloquio con Heidemarie Seblatnig, in Seblatnig, Einfach den Gefahren ins Auge sehen. Künstlerinnen im Gespräch, Vienna 1988, pp. 158–161; disponibile online sul sito web Estate Birgit Jürgenssen https:// birgitjuergenssen.com/ bibliographie/interviews/ seblatnik1986 [ultima consultazione: 07. 09. 2018].