Sissi: Abitanti
di Danilo Eccher
Da Sissi: Abitanti, Mousse Publishing, Milano, 20122
Il nome della principessa di Baviera se lo ritrova addosso al termine della sua prima performance Daniela ha perso il treno alla stazione ferroviaria di Bologna nel 1999, quando l’artista, avvolta in un lungo abito realizzato con consunte camere d’aria di vecchi camion e trattori, tentava invano di salire a bordo dei treni, attraverso le anguste porte d’accesso. Vi era in quella performance un succedersi di assurdi contrasti, di violenti cortocircuiti, di rudi contrapposizioni tra la velocità del treno e il goffo involucro del vestito, tra l’implacabile pragmatismo della tecnologia e l’ossessiva ripetizione di un gesto improbabile, tra il sogno avventuroso di un viaggio verso il futuro e la frustrazione da un’impossibilita gioiosa, distruttiva, provocatoriamente senza speranza.
Un confronto fra l’eleganza del gesto e la ruvida superficie del contesto, fra la commovente ossessione della performance e la rigidità compositiva della spazio scenico. A questa performance non è solo legato il nome di Sissi, si tratta anche di un’opera che rappresenta un ampio spettro di quell’orizzonte poetico entro il quale si svolge l’intera ricerca dell’artista. Da un lato emerge il piano performativo che si caratterizza immediatamente da una presa di distanza, da una decisa estraneità verso un eccessivo rigore concettuale e verso una fredda impostazione formale; non vi è traccia, nel lavoro di Sissi,
della maniacale perfezione performativa di Vito Acconci o di Bruce Nauman; nessuna compiacenza
alle “Living Sculptures” di Gilbert & George; frammentarie e intermittenti le vicinanze a certe opere di Marina Abramovic; quasi assente l’ironia libertaria di Fluxus. La corrente che increspa la superficie, e anima le performance di Sissi, proviene piuttosto dall’ossessività autoreferente e classificatoria di Kurt Schwitters; s’intuisce nelle perversioni barocche dell’Aktionismus Viennese e in Hermann Nitsch in particolare; si può percepire un simile clima nel caotico disordine di Paul McCarthy o di John Bock; si deve in ogni caso riconoscere un’affinità poetica, e per certi versi anche formale, con l’opera di Matthew Barney.
In entrambi il proprio vissuto si rivela come una palestra creativa, in entrambi affiora una visionarietà allucinatoria, in entrambi si legge una scrittura ossessiva ed ego-centrata. Per Sissi l’esperienza personale non è solo un intimo bagaglio al quale attingere sottili suggestioni, non è solo un ovattato velo della memoria sotto il quale si annebbiano e si attenuano le diversità, non è un ambiguo sipario dietro il quale celare le proprie inquietudini. Piuttosto, il proprio vissuto è per Sissi il soggetto centrale di tutta la sua narrazione; è l’estensione psicoanalitica della sua poetica: il tema della “grotta” che poi si fa “zattera” per mutare ancora in “nido” e, successivamente, in “gabbia”, sono declinazioni formali di una necessità di protezione che non cede al compiacimento commiserevole, né allo smarrimento intimorito, anzi; al contrario, Sissi traspone questo bisogno di protezione da una sfera privata al piano dell’evocazione pubblica, da un trascorso individuale ad un’istanza collettiva, ad una necessità simbolica che restituisce al singolo il proprio rapporto pubblico. Questa dialettica notturna fra esperienza personale e bisogni collettivi costituisce gran parte del vocabolario artistico di Sissi, ne traccia le coordinate poetiche, delinea l’orizzonte letterario entro cui si svolge la narrazione. La sfera privata sfuma così nella dimensione esistenziale, nel rapporto fra sé e mondo, definendo i propri tratti psicologici come strutture simboliche nel processo di interpretazione della realtà. L’artista legge la propria anima ad alta voce, ad un pubblico che lentamente si avvicina e segretamente si riconosce nelle stesse paure, delle stesse ansie, negli stessi bisogni.
È necessario ripararsi dal mondo e, nel contempo, riparare il mondo, costruire rifugi, allestire ripari, tessere coperte ma soprattutto imbastire una liturgia performativa capace di restituire, e quindi consegnare alla memoria, il flusso di energia vitale, il movimento incessante, la corrente inarrestabile di un’implacabile oscillazione fra sé e mondo. Così, come la larva compie nel bozzolo la propria mutazione in farfalla, Sissi si avvolge nelle proprie opere, le abita, il suo respiro le agita, il suo calore le modella, il suo movimento le trasforma finché l’opera reclama un proprio ruolo, espelle l’artista dal proprio corpo e ne sigilla la solitudine. L’opera che si nutre della presenza dell’artista si trasforma in carnefice, l’accoglie nelle sue viscere per poi liberarsene, si dimostra ospitale per svelarsi implacabile, è un’opera che non teme di mostrare la propria carne, il proprio contorto intestino. Dalle prime presenze con lo “scubidù” ai nidi di rattan, dalle gabbie in ferro alle corde annodate, dalle macilente ossa in terracotta fino alle contaminazioni improbabili di stoffe per i vestiti, tutto suggerisce la presenza di una scrittura ripetuta, di un ricamo insistito, di un intreccio indicibile; un garbuglio di segni, gesti, materiali che avvolgono l’esperienza personale dell’artista e ne catturano la segreta ossessione. Un’ossessione intima, silenziosa, discreta, solitaria, come le infinite camminate di Richard Long oppure gli intrecci di rame di Marisa Merz: i sassi raccolti sulle montagne e ordinati nei musei; il filo di rame che si annoda e si distende per comporre disegni geometrici, per intrecciare pitture, per realizzare impalpabili scarpette da danza. Soprattutto con i lavori di Marisa Merz, Sissi sembra avere una sorprendente familiarità, non tanto sul piano formale e compositivo, quanto su quello poetico e linguistico; dunque emergono esiti narrativi distanti, estranei agli sbocchi concettuali, eppure affiorano insospettabili vicinanze grammaticali, inattesi parallelismi emozionali. Il tratto dei disegni di Marisa Merz che si contorce e si avviluppa sulla carta fino ad inciderla e a corroderla, lo stesso intreccio dei fili di rame, si riverbera in una simile ossessione nei nodi di scubidù, nel lavoro del rattan, negli ingorghi di corde che costituiscono i corpi dell’opera di Sissi. È l’intimità di un segno che si mescola e si confonde, che si annoda e si lacera, che si dispone per accogliere l’artista, per farsi casa e abito. Gli abiti che Sissi disegna, cuce, compone e quindi indossa, sono opere e performance allo stesso tempo: sono le opere scultoree di un processo complesso, costantemente sospinto in un’oscillazione fra l’ossessione dell’ordito e la simbologia della forma, fra l’intimità di un linguaggio segretamente autobiografico e l’esibizione di un corpo materico invadente e ingombrante.
Allo stesso tempo, i vestiti-opera sono l’atto teatrale, performativo, di una messa in scena in cui l’artista è chiamata alla recitazione del proprio segreto, ad indossare le proprie nudità.
Ciò accade anche, e forse in maniera ancora più evidente, nelle opere dedicate alle “Cene”, dove questa teatralità liturgica si afferma nella tavola imbandita e si declina nella comunione dei commensali. Forse si può cogliere un debole richiamo alle “tavole” di Daniel Spoerri, probabilmente un riferimento alle comuni atmosfere performative di Rirkrit Tiravanija, sicuramente un compiacente e infantile ricordo dell’esuberante esagerazione dei cibi di Claes Oldenburg. Nell’istintività un po’ folle, capricciosa, visionaria e autoreferente di Sissi, non smettono mai di affluire le suggestioni e le memorie dell’attualità e della storia dell’arte, si susseguono gli scatti visivi e i sobbalzi interpretativi che rendono questo lavoro così sorprendente e spesso sconcertante, una ricerca che scivola fra le maglie della critica, che si ritrae dalla categorie prestabilite, che accetta compagnie improbabili. Tavole imbandite nei modi più insospettabili, nei luoghi più curiosi, con i cibi più golosi, con lumache vive a ricamare i propri decori, con un pubblico attento e preparato a compiere il proprio rito: la liturgia si attua nel gesto di consumare l’opera. Ancora una volta, l’atto performativo riscatta, con il proprio pesto, l’eleganza formale della messa in scena, in alcuni casi tragicamente romantica, conferendo all’opera uno scatto distruttivo, doloroso, eppure, inaspettatamente gioioso. È la festa barocca di Sissi: un po’ travestimento e allucinata visionarietà, un po’ ossessione e autistica insistenza. Si ritorna così agli abiti, gioco di travestimento per eccellenza, assurda magia di combinazioni e di intrecci, epifanie cromatiche dove le stoffe rincorrono un loro motivo, un diverso destino, un flebile ricordo. La narrazione dell’abito attiva l’infantile visionarietà, alimenta la fantasia ludica che libera forme e immagini, colori e tessuti. Riemerge l’ossessione dell’intreccio, del ricamo, del cucito, del disegno, sì, perché o vestiti sono per Sissi dei grandi disegni, sono fogli da abitare e da vivere, territori da percorrere e scoprire, luoghi in cui nascondersi e dove accendere le infinite maschere dietro le quali compiere l’avventura del vivere. Così l’opera prende corpo dopo essere stata indossata e appare come l'involucro di una memoria, quella di una presenza svanita, di un’azione compiuta, di un gesto dato; l'abito è una pelle svuotata, è l’impronta di un’assenza che si respira. Disegno e gesto, sono questi i confini entro cui si coglie lo smarrimento dell’arte di Sissi: il tratto volutamente insistito e ripetuto che riempie quotidianamente pagine di diari, per poi rivelarsi nell’intreccio e nell’annodo come nel ricamo e nel modellato; l'azione autobiografica che riconduce il mondo in sé, che attesta la presenza dell’artista in tutta la sua forza e in tutta la sua debolezza, in tutto il suo vivere quotidiano. È, quella di Sissi, un’arte laterale, sghemba, obliqua, difficilmente omologabile, surreale – se il termine non fosse troppo carico di ambiguità – un’arte incline al passo di danza, al volteggio, capace di esasperare lo sguardo e incidere profondamente nel pensiero.