Marc Quinn
(Londra 1964)

Waiting for Godot, 2006
bronzo patinato

Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali - Collezione Arte Contemporanea - MACRO

Tra i protagonisti della Young British Art, Marc Quinn esordisce nel 1991 con Self, opera che riproduce la sua testa modellata con cinque litri del proprio sangue congelato. Da subito i temi del corpo, della morte e della bellezza si intrecceranno nella sua produzione, mettendo a confronto continuo il mondo classico con la medialità più glamour (Kate Moss) o la narrazione più intima. In questo caso il topos dello scheletro inginocchiato fa parte di una ampia iconografia anatomica che ha visto massima diffusione negli atlanti del XVIII secolo, dall’Osteographia di William Cheselden, (Or The anatomy of the bones, Londra 1773) alla famosa incisione di Francois Gamelin (Nouveau recueil d'ostéologie et de myologie...1779), in cui si esortano - con ironia terribile - delle povere ossa inginocchiate a pregare per non cadere nella tentazione del peccato: “Orate non intretis in tentationem”.

Contenuti speciali

Portatemi la testa di Marc Quinn!
di Will Self

Da Bring me the head of Marc Quinn, Booth-Clibborn Editions, London 1998

 

Ho visto per la prima volta la scultura Self (Sé, soprannominata “testa di sangue”), alla Saatchi Gallery in occasione di Young British Artists II, nel 1993. Ora che sono passati oltre quindici anni, è difficile apprezzare l’impatto di quella mostra, allestita da Saatchi nella sua galleria di Boundary Road, nella zona Nord di Londra. L’iconica mostra installata da Damien Hirst in un magazzino vuoto della Isle of Dogs per Frieze, nel 1988, aveva già accelerato il battito del cambiamento nella scena artistica contemporanea inglese; ciononostante, servì l’intervento di Saatchi - un collezionista al contempo generoso ed esuberante - per portare lo sguardo del mondo su quella che era una straordinaria fioritura di talento creativo.

Self era stata inizialmente concepita da Marc Quinn per una mostra personale, organizzata da Jay Jopling (che ad oggi è ancora uno dei galleristi di Quinn) nel 1991. Insieme alla testa di sangue, c’erano una serie di “mani di pane”. A quel tempo l’artista stava lavorando molto utilizzando il pane come medium e forse una parte del calcolo nascosto nell’ispirazione di Quinn si risolse in questa formula Eucaristica: pane=corpo; alcol=sangue. In realtà, chiaramente, l’idea per Self si è sviluppata autonomamente. Durante una recente conversazione nel suo studio di Clerkenweel, Quinn mi ha detto: “In quel periodo ero interessato al congelamento come metodologia. Sentivo che mentre la scultura esisteva necessariamente al di fuori del tempo, il congelamento fermava il tempo rendendo l’atemporalità esplicita. All’inizio non riuscivo a pensare a nulla di interessante da congelare, poi una mattina mi sono svegliato e l’ho visto, finito nella mia mente: un calco della mia testa fatto con il mio stesso sangue congelato”.

Mentre lo ascoltavo, ho ripensato al mio primo incontro faccia a faccia con Self. Di certo la larga rampa che scendeva nella Saatchi Gallery, coperta con una durevole emulsione beige, ricordava l’ingresso di una tomba al contempo antica e futuristica e lo stesso facevano i cancelli in acciaio che bisognava attraversare per accedervi. Gli spazi astutamente asimmetrici e minimalisti dell’interno della galleria si aprivano a partire da una piccola anticamera. Ed ecco che, esposta all’interno di una teca in plexiglas trasparente, sopra al suo mobiletto-freezer piazzato in mezzo alla stanza, appariva questa testa, non un busto - con tutte le proprietà storiche e formali che tale taglio fisico comporta - ma una testa pura e semplice che fissava i visitatori con sanguigna atarassia (e per una volta il rafforzativo “letteralmente” diventa accettabile) mentre questi passavano effimeri davanti ai suoi occhi. E sì, ho immediatamente capito che Self esisteva al di fuori dal tempo, apparteneva sia a un passato distante - una reliquia, un oggetto dissotterrato, mitico - sia a un futuro ancora inconcepibile ed esisteva nella sua attuale forma soltanto grazie alla tecnologia che la teneva in vita. Quella mitica è una dimensione per cui Quinn continua ad avere una predisposizione e quando gli ho parlato di come questo lavoro che mi era stato annunciato sottovoce (“Hai sentito di questo artista che ha usato il suo stesso sangue per…?”) molto prima che lo vedessi, sia il miglior esempio della sua estetica di rappresentazione letterale, non ha negato:

“Sì, mi piace che i processi siano intelligibili e Self, proprio grazie alla sua stessa continuità e alle sue numerose incarnazioni, è ora inevitabilmente diventato l’arteria che passa attraverso il mio lavoro. È stata la mia prima opera matura, ma il suo obiettivo persiste ancora oggi; se consideri le mie sculture frammentate in marmo, il fatto che rappresentino persone effettivamente prive delle braccia o delle gambe, ti rendi conto che anche loro sono una rappresentazione letterale”.

Quinn ha parlato della letteralità definendola come “Uno dei migliori e più sottovaluti metodi per comprendere il mondo”, ma siamo d’accordo sul fatto che l’essenza di quella comprensione sia la natura metaforica della realtà stessa. Nel 1993 ho fissato Self mentre lei mi fissava, se si può dire una cosa del genere di occhi intorbiditi dalla stessa sostanza che li costituisce. La superficie della testa di sangue era butterata e screpolata, come se si fosse coagulata - incrostata tanto quanto era congelata - e questa patina sembrava contenere in se stessa il minerale fuso, l’organico e l’artificiale, rendendo l’attribuzione ad una sola origine completamente fatua. Di nuovo, questo era il momento in cui i critici potevano affermare, senza pensarci troppo, che la scena artistica contemporanea di Londra “era morta”, mentre Charles Saatchi riversava 20.000 £ sulle opere di nuovi artisti giovani finendo in prima pagina. Young British Artists II non fu una mostra insignificante, c’erano dei lavori potentissimi di Sarah Lucas e Mark Wallinger insieme a quello di Quinn, eppure, lì in quel relitto, lasciato indietro dall’alta marea di soldi sporchi che nel decennio successivo ha invaso il mondo dell’arte, Self resiste. Resiste, piegata ad uno strano angolo su questa spiaggia terminale, come la statua della libertà semi-sepolta alla fine del Pianeta delle scimmie, una minaccia che ci avverte delle possibili conseguenze. “Dipende dalla mia vita per essere creata, è fatta della sostanza di me; e quindi la immagino come la più pura forma di scultura, scolpire il tuo corpo, a partire dal tuo corpo. I lavori che ho prodotto di recente, che coinvolgono persone che si sono sottoposte a modifiche fisiche estreme (chirurgia plastica, tatuaggi, operazioni di riassegnazione del sesso) mi ci hanno fatto ripensare; sono, se vogliamo, artisti naif che lavorano con il mio stesso medium, mentre la mia pratica è la versione culturalmente mediata di un’arte che è primitiva nel miglior senso della parola”.

Carne e sangue, gli ovvi significati auto-referenziali di Self, la sua evocazione della sofferenza romantica e la trasmutazione della vita nel lavoro non sono invisibili a Quinn, né l’artista rifiuta, come faceva una volta, interpretazioni psicanalitiche più ovvie: “La mia vita all’inizio degli anni ’90 era estrema, e credo sia ovvio che un giovane artista cerchi uno statement estremo per rendersi riconoscibile”.

Mi sono chiesto se la dipendenza da alcol che affliggeva Quinn in quel periodo, fosse alla radice di una parte della piastra di Petri psicologica che ha dato forma alla coltura di Self:

“Sicuramente Self ha a che fare con l’idea della dipendenza; con il fatto che così come il tossico è dipendente dalla sua droga, la testa di sangue non può sopravvivere senza elettricità. Ciononostante, ho sempre pensato che questo fosse un lavoro sulla vita piuttosto che sulla morte. C’è qualcosa di interessante nel sangue, nel modo in cui si rinnova; non è come amputare un arto. È questo il rinnovamento su cui mi sono concentrato in altri lavori che coinvolgono delle parti del corpo, come la placenta”.

Il controllo, e l’assenza dello stesso suggerita dalla dipendenza, sono centrali in Self; e la risonanza che l’opera, in tutti e quattro i suoi avatar, continua ad avere ancora oggi è, secondo Quinn, la dimostrazione della sempre maggiore dipendenza di tutta la società da un’infrastruttura che mantiene la forma e i contenuti in un equilibrio sterile. Detto questo, per quest’opera - così tanto assimilabile a una sineddoche - l’equilibrio è stato difficile da ottenere. Quinn trovò un medico, ancora oggi coinvolto nel processo, pronto a prendergli il sangue necessario: dieci pinte nell’arco di cinque sessioni. Qualunque senso di disgusto l’artista abbia provato è stato superato dall’impulso creativo. Che dieci pinte di sangue congelato fossero esattamente il quantitativo necessario a creare un calco della testa dell’artista non era prevedibile, un sorprendente colpo di fortuna. Siren (Sirena), la statua che è un calco in oro della modella Kate Moss, è un esempio di più tardo di queste strane coincidenze: il peso del materiale è lo stesso di quello del suo soggetto; il valore del materiale, quello di mercato al momento della produzione dell’opera, era esattamente un milione di sterline.

Quinn non nega che questo sia curioso, ma è parte del suo personaggio rimanere sprezzante verso ogni mistero, affermando che: “Stai guardando soltanto i lavori che sono fortuiti, da qualche parte ne ho anche una marea di altri che non lo sono”. Di certo l’effettiva produzione di Self rivela una prassi ben più caotica. Non c’è stata la possibilità di sperimentare con il materiale, o strutturare una metodologia appropriata; operazioni che sarebbero state difficili da portare a termine nei laboratori di ricerca di una grande corporation, sono state eseguite in ambienti particolarmente insalubri. Il primo Self, per esempio, è stato estratto direttamente dallo stampo per essere esposto nella sua teca a -18°. Ma se all’inizio la scultura aveva esattamente l’aspetto che l’artista aveva immaginato, dopo una settimana di mostra fu evidente che ci fossero dei problemi: l’aria stava raggiungendo il sangue, vaporizzando il suo contenuto acqueo, e portandolo nella parte più gelida di quel circuito chiuso, il sistema raffreddante.

Self si stava disintegrando e diventò, come mi ha detto Quinn: “Una scultura incredibilmente stressante da lasciar esistere”. La metafora della dipendenza aveva acquisito una vita autonoma e sinistra, iniziando a parassitare, come una sorta di Frankenstein, sul proprio creatore. “Ogni volta che squillava il telefono pensavo fosse la galleria che diceva ‘Devi venire qui e risolvere la cosa, si sta sciogliendo’. Era come avere un amico malato terminale e l’immagine della dipendenza che avevo creato era diventata terribilmente dipendente da me”.

Self, infatti, è stata scongelata per rifarne il calco almeno quattro volte, prima che Quinn sviluppasse una temporanea soluzione tecnica: un rivestimento in silicone interno allo stampo che aderisse alla superficie della testa di sangue. Quando l’ho vista per la prima volta alla Saatchi Gallery, Self stava già indossando la sua maschera trasparente, eppure non si era ancora arrivati alla sua forma finale. Quel volto butterato e malevolo era causato dalla comparsa di minuscoli buchi sul silicone, che si allargavano esponendo il sangue coagulato all’aria. Fu nel 1996, quando venne prodotto il secondo Self, che si raggiunse una forma stabile tramite l’immersione della testa in silicone liquido a -18°, garantendo una completa profilassi tra sangue e aria.

Inizialmente, Quinn aveva ipotizzato che la testa di sangue pre-esistente venisse mantenuta nel suo stato instabile, ma poi l’evolversi della vita di Self iniziò ad interessarlo tanto quanto il suo iniziale concepimento: la pratica e l’opera si erano fusi. “Volevo che fosse perfetta; non perfettamente uguale a me, ma che fosse un calco perfetto. Mi piaceva la sensazione cristallina data dalla testa, mi sembrava che fosse una pietra preziosa, anche se mineralizzata; sapevo del contenuto di ferro nel sangue, e di come il congelamento aumentasse il grado di ossidazione dello stesso, come se la sua stasi la stesse in qualche modo arrugginendo, rendendo la scultura una fusione in ferro”.

Questo equilibrio vinto con fatica tra gli stati elementali dona a Self un’ulteriore dimensione mitica. Quinn, come sempre, è pronto ad abbracciare qualunque narrazione il lavoro possa generare, non importa quanto questa sia spuria; e quando, alcuni anni fa, iniziò a circolare la voce che l’originale Self del 1991 (al tempo ancora di proprietà di Saatchi) si fosse sciolto dopo che la moglie del collezionista, la famosa chef Nigella Lawson, aveva accidentalmente spento il suo apparato congelante, la prese come l’espressione di un collettivo, anche se sommerso, desiderio per la conservazione degli elementi nel loro stato originale: “Quando una cosa è solida, ma il suo stato naturale è liquido, inconsciamente vuoi che torni a essere liquida. Mentre, ovviamente, questa è probabilmente l’unica scultura al mondo che, volendola sfracellare, ci farebbe apparire colpevoli di omicidio”.

Un aspetto curioso dell’impatto di Self sullo spettatore è che, nonostante si tratti di un autoritratto puro (un punto di vista che Quinn accoglie con entusiasmo), sembra completamente privo di un ego o di una cruda esperienzialità: non somiglia all’autoreferenzialità narcisistica che caratterizza moltissima arte contemporanea, e neanche a un tentativo di usare la forma fisica dell’artista come tela su cui vengono stese le pennellate della vita. Piuttosto, Self mi sembra più affine alle sculture votive, specialmente quelle delle religioni tradizionali e orientali, venerate come veicoli della divinità, entro cui si potrebbe riversare la sua essenza.

Sicuramente Quinn non si è mai tirato indietro davanti alle implicazioni religiose del suo lavoro. Sembra considerarsi come un Michelangelo alla corte di Mammona, chiamato a produrre iconografie per una religione laica che venera il denaro, il potere, la celebrità e la preservazione medica della vita. I suoi simulacri acquisiscono una strana esistenza autonoma, accumulando miti come hanno fatto Shiva, Gesù o Dracula. Tutto questo, ammette Quinn, è sempre stato implicito in Self, 1991, ma ci sono volute l’evoluzione della sua vita alternativa e le sue versioni successive (una ogni cinque anni, un ritmo produttivo che l’artista intende mantenere per tutta la sua vita lavorativa) perché questi significati si sentissero orgogliosamente rappresentati dalla maschera sanguinolenta.

Questa vita alternativa aveva come elemento chiave il viaggio; come le statue votive che vengono portate dentro al tempio e acquisiscono in tal modo valore rituale, diventando capaci di fungere da portali tra il mondo dei noumeni e quello dei fenomeni, così la quadripartita Self ha viaggiato verso i quattro angoli del mondo. La più recente incarnazione dell’opera, Self, 2006, è stata acquistata, dopo lunghe discussioni, dalla National Portrait Gallery di Londra, che possiede già il “ritratto genomico” che l’artista ha fatto a Sir John Sulston. Il lavoro originale del 1991 è ora di proprietà del collezionista Americano Steve Cohen; Self, 1996, appartiene a Harold Rahofsky e al Dallas Museum of Art; mentre Self, 2001, è andato a est, acquistato dal Sig. Kim, collezionista sudcoreano e fondatore della Arario Gallery.

Quinn si sta evidentemente gustando questa dispersione del suo lavoro, e gli dà la sensazione di solleticare un altro ramo mitico: gli atti di preghiera incarnati dai viaggi e dal consumo di massa, fondamentali per l’attuale fede nella globalizzazione. Ora tutti e quattro i Self torneranno in Europa per la mostra a Basilea e per l’artista questa sembra un’emanazione letterale della sua ispirazione: l’attrazione dello Spirito Santo dell’arte. Questo ritrovo, che come sottolinea sarcasticamente Quinn, includerà: “Cinque partite del mio sangue, una delle quali ancora in circolo”, ha anche comportato un’ulteriore riprogettazione dei lavori. Un altro problema tecnico, la condensa che si formava sul vetro riscaldato (riscaldato per preservarne la trasparenza) è stato risolto solo recentemente. L’artista si è reso conto che il problema era causato da un cambiamento nella pressione dell’aria della stiva durante i trasporti aerei della teca che causava minuscole deformazioni nelle guarnizioni del vetro e, questa volta, ha fatto in modo che le teche venissero trasportate in Svizzera via terra e via mare.

Sembra esserci una strana congruenza tra questo cambiamento e movimento dei lavori, e l’atto originale che gli ha dato un corpo: il prelievo del sangue dell’artista. A proposito di questo, Quinn dichiara: “È una sensazione interessante e non succede spesso quando produci un’opera di percepire la sensazione fisica di qualcosa che lascia il tuo corpo”. Se questo non è un cenno a ciò che lui dice essere la “versione cyber-ironica del reale percorso artistico”, resta comunque una caratteristica e un microcosmo della circolazione globale dei lavori creati in questo modo.

Quinn continua a restare concentrato sul modo in cui Self (considera le quattro teste di sangue come parte di un unico lavoro), si relaziona con il tempo; queste versioni alternative consentono di considerare la possibilità di linee temporali alternative sottolineando quindi il ruolo della contingenza e del caso nella vita umana. Per quanto riguarda il futuro, l’artista ha parlato della sua intenzione di farsi prosciugare il sangue in punto di morte, così da permettere la creazione di un’ultima testa di sangue. Comunque, in questa conversazione, ha enfatizzato che l'escatologia dell’opera è ancora nella sua fase iniziale; ha anche dichiarato che forse vorrebbe creare una scultura di sangue molto più grande o addirittura usare dei metodi di clonazione per produrre teste di sangue all’infinito.

La sua resistenza a una qualunque finalizzazione di Self mi ha fatto pensare che, in maniera comprensibile, questa sia collegata con il suo grado di identificazione con il lavoro.

“Il mio obiettivo primario rimane la creazione di opere che siano al contempo incantevoli e profonde”, ha dichiarato. “È da qualche parte nell’opposizione simmetrica di trasgressione e piacere privo di colpe che si rivela l’energia propulsiva delle mie idee”. Come a conferma di questa dichiarazione, Quinn ha iniziato a riflettere sulle (possibili) opere che potrebbero derivare dalla compresenza di tutti e quattro i proprietari delle parti di Self nella stessa stanza: “È importante che i lavori come questo vengano venduti per molti soldi,” ha detto. “Perché questo assicura che ricevano le massime cure; ma allo stesso tempo, conferma un paradigma antiquato, l’idea che l’artista debba soffrire, mentre il compratore paga. Potrei proporre ai collezionisti di darmi il loro sangue. Così da farli soffrire e pagare”.

E questo, tanto quanto ogni altra possibile formulazione, sembra un credo plausibile per un mercato libero arrivato a un caos terminale: un caveat emptor per la sua logica e assurda conclusione. Il Self di Quinn che fissa il mondo dalla sua teca in silicone da quasi vent’anni, ha visto molto della follia dell’Uomo. L’arrivo imminente del Giovane Memnone, la statua monumentale di Ramses II, sembra aver ispirato a Shelly il suo Ozymandias. Ancor prima di aver posato gli occhi sull’espressione pietrificata del Faraone, il poeta rimase folgorato dalla sua atarassia, un’indifferenza che sembrava sconfiggere il tempo. Self appartiene a questo lignaggio: un’opera preceduta da una scossa mitica che quando viene finalmente rivelata, sciocca il suo pubblico portandolo ad uno stato di sottomissione, facendolo prostrare davanti all’incarnazione della sua mortalità senza dio.