Nei primi decenni dell’Ottocento, grazie allo studio dell’anatomia microscopica, Filippo Pacini riuscì a identificare nella dissezione della mano una tipologia di corpuscoli tattili in grado di assorbire l’intenzionalità e la recettività della mente. Questi organuli presenti nel nostro corpo hanno il compito di trasformare gli impulsi nervosi provenienti dal cervello in azioni atte a produrre la contrazione dei muscoli e, di conseguenza, il movimento degli arti. Lo studio di questi ricettori cinestetici ha contribuito a determinare scientificamente la relazione intrinseca che si stabilisce tra mano e mente, elevando l’organo tattile a punto focale dell’architettura cognitiva umana, in quanto capace di leggere e decifrare il reale, tradurre il pensiero, formalizzare il gesto e incorporare il linguaggio.

Sin dai tempi più antichi, la comprensione di questa intelligenza sensibile ha fortemente alimentato anche il dibattito filosofico, non da ultimo Jacques Derrida che, commentando gli scritti di Martin Heidegger relativi all’essere della mano e alla sua capacità di relazionarsi al pensiero, rimarca l’impossibilità di definire l’arto semplicemente come organo corporeo di prensione. Il filosofo francese evidenzia il parallelismo che sussiste tra l’opera della mano e l’intelletto nella comune capacità di organizzare, capire, concepire materia e idee, una corrispondenza che si manifesta nella sua più alta espressione con la concordanza tra linguaggio e gesto. La manualità del corpo, infatti, è capace di sintetizzare il pensiero nel disegno, nel segno della scrittura, così come nei gesti che caratterizzano la comunicazione non verbale.

La sapienza manuale acquisita nei secoli ha dunque consentito all’uomo di transitare da un’evoluzione culturale legata alla formazione del linguaggio a un’evoluzione tecnica incentrata sullo sviluppo di sistemi avanzati. Partendo dai processi novecenteschi che miravano all’automazione fino alle più attuali tecnologie di digitalizzazione e di intelligenza artificiale, la propensione a separare il lavoro intellettuale dal lavoro manuale ha innescato una trasformazione nella condizione di homo faber, aprendo la strada a un profondo cambiamento di paradigma che, come evidenzia il sociologo statunitense Richard Sennett, rivela una progressiva perdita di contatto con la realtà delle cose.

A partire dagli anni ’60, le ricerche artistiche di Ketty La Rocca, Giuseppe Penone e Yvonne Rainer, hanno esplorato una possibile rilettura delle convenzioni artistiche, tecniche e culturali, ampliando la riflessione sulla forma e sulla liberazione del corpo, del pensiero e dell’identità. Esplorando la mano come unità radicalmente separata da ogni possibile funzione interpretativa, questi artisti sono stati in grado di elevare il corpo sensibile a mezzo puro e autentico, matrice del gesto minimo e primitivo, restituendo così centralità a quella conoscenza che si sviluppa nella relazione tra soggetto e oggetto, interno ed esterno, uomo e natura. (lp)