Giuseppe Penone, Avvolgere la terra
di Daniela Lancioni
Nelle dichiarazioni di Giuseppe Penone ancora oggi emerge il desiderio, manifestato sin dai suoi esordi, di “rivelare aspetti della realtà… percepire la realtà… riconsiderare i valori della realtà… essere aderenti alla realtà…”. Le espressioni sono tratte dalla conversazione svoltasi nel dicembre del 2019 al Palazzo delle Esposizioni di Roma in occasione della mostra “Sublimi anatomie”. Invitata da Laura Perrone, curatrice della sezione arte di quella mostra, a scrivere sulla presenza di Penone, mi è sembrato interessante introdurre le sculture esposte, Avvolgere la terra, tenendo a mente la fiducia riposta dall’autore nella realtà. Penone l’ha condivisa con altri della sua generazione, ma l’ha sperimentata e comprovata in una maniera del tutto originale che potrebbe rivelarsi una precoce intuizione delle riflessioni recentemente maturate nell’ambito dei nuovi realismi e che sicuramente è all’origine del lavoro di non pochi giovani artisti.
Avvolgere la terra è uno di quei titoli impiegati da Giuseppe Penone per accogliere le opere in una sorta di macro serie. Un sintagma al quale addiziona altri corpi verbali così da nominare altre opere o gruppi di opere. La radice comune dei loro titoli sancisce l’appartenenza alla medesima famiglia, come accade nelle sculture esposte al Palazzo delle Esposizioni, tutte datate 2014: Avvolgere la terra - Rising Earth, Avvolgere la terra - corteccia e due versioni di Avvolgere la terra - il colore delle mani. Un sistema di titolazione che l’autore ha sperimentato sin dai suoi esordi con la serie Alpi Marittime (1968) e che assomiglia a quello tassonomico adottato dagli zoologi e dai botanici i quali procedono dalle macro categorie del regno animale e vegetale sino a distinguere le singole specie.
La serie Avvolgere la terra fece la sua comparsa nel 2014. Dapprincipio esemplari isolati vennero mostrati a Parigi (“Giuseppe Penone. Sculptures et dessins récents”, Galerie Alice Pauli, Parigi 15 maggio – 19 luglio 2014) e a New York (“Giuseppe Penone. Indistinti confini”, Marian Goodman Gallery, New York 18 marzo – 25 aprile 2015), successivamente, diverse versioni di Avvolgere la terra si trovarono raccolte nella mostra monografica dedicata a Penone dal Museo Mart di Rovereto (“Giuseppe Penone. Scultura”, a cura di Gianfranco Maraniello, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto 19 marzo – 26 giugno 2016).
Come è noto, Penone, nei libri e mai in mostra, accompagna talvolta l’opera con un testo. Questi testi, ai quali unanimemente viene riconosciuto valore letterario, precedono l’opera oppure sono scritti dopo la sua realizzazione, in entrambi i casi servono all’artista, per sua stessa dichiarazione, a “elaborare”, “capire” le sue immagini (Giuseppe Penone, Respirar la sombra. Respirare l’ombra, Centro Galego de Arte Contemporánea, Santiago de Compostela, 1999, p. 10). Quando pubblicati, al pari degli statement degli artisti concettuali, sono utili per suggerire a chi legge le dinamiche, le tecniche e i processi del tutto inusuali adottati. Riferibili ad Avvolgere la terra si conoscono due testi, entrambi del 2015, scritti, quindi, un anno dopo la realizzazione delle sculture.
“Il color carne, la superficie liscia della creta, la sua porosità delicata e polverosa, tenera al tatto come il velluto della superficie del cuoio rovesciato, con i suoi sottili filamenti che gli permettevano l’aderenza alla carne che avvolgeva”. (2015)
In questo testo, il primo dei due ad essere pubblicato (catalogo della mostra citata, New York 2015, s. p.), si rinnovano i temi centrali delle riflessioni di Penone: il processo del tatto e il ragionare per similitudini. La creta al tatto è liscia, porosa, polverosa, tenera e aderisce alle sue mani come la pelle alla carne. È un “velluto” la cui etimologia rimanda al vello animale e permette all’autore di introdurre un altro elemento ricorrente nella sua prassi, quello del rovesciamento. Il velluto-vello della superficie ha le stesse qualità del cuoio rovesciato con i suoi sottili filamenti che all’interno del corpo facevano aderire l’epidermide alla carne. Il brano suggerisce anche un’altra similitudine, tra il colore della carne e quello della creta.
Il testo è stato sempre pubblicato insieme ad alcuni disegni intitolati anch’essi Avvolgere la terra e datati 2014. Sono disegni a grafite su carta chiara. La matita traccia i contorni di due mani accostate e la grafite colora un tutto pieno solo intorno alla zona dove le mani si toccano. Un’area messa in rilievo, come se lì accadesse o fosse accaduto qualcosa. Una superficie dove le due mani, altrove solo tratteggiate, mostrano la propria pelle.
Siamo portati a leggere questi disegni come un indizio (non come un’icona, né come un simbolo come forse tutto il lavoro di Penone andrebbe interpretato) e a chiederci cosa sia accaduto su quella porzione di pelle evidenziata dalla grafite.
Le grandi sculture esposte al Palazzo delle Esposizioni, con le loro masse di creta morfologicamente caratterizzate, potrebbero essere la manifestazione evidente di quanto accaduto, la resa plastica, ossia, del contatto tra le mani e la creta.
Per descrivere queste opere, strettamente connesse al processo che le ha generate, non possiamo fare diversamente che accennare al modo in cui sono state realizzate. Contenendo tra due mani una massa di creta, Penone ha esercitato su di essa una pressione lasciando la sua impronta sulla materia. Un processo, del resto, suggerito dal titolo stesso delle sculture (per visualizzarlo si può vedere il capitolo IV di Ephemĕris, 2016, due video, colore, sonoro, 9’14’’ e 4’46’’, riprese di Giampaolo Penco, produzione Archivio Penone, relativo alla realizzazione di altre opere, ma indicativo del processo adottato anche in tutte le sculture della serie Avvolgere la terra: https://www.youtube.com/watch?v=fGVzUpclyTA). Infine, la massa di creta così ottenuta è stata poi ingrandita, ma in Avvolgere la terra - Rising Earth e in Avvolgere la terra - corteccia nell’alveo che il calco ha creato troviamo un piccolo grumo di terra modellato dal pugno, di nuovo, una sorta di indizio che rimanda in questo caso all’atto che ha originato l’opera.
In ciascuna di queste opere il positivo e il negativo sembrano perdere di competitività per cedere il passo al volume generato dal contatto.
La resa plastica del contatto tra le mani e la creta, inoltre, si combina con altre suggestioni. In Avvolgere la terra - Rising Earth la massa di creta si erge su una sezione di tronco rivestita di cuoio, in Avvolgere la terra - corteccia poggia su un bronzo fuso dal calco di una corteccia. La pelle come la corteccia dell’albero è segnata di solchi che somigliano a quelli delle vene del corpo o ai canali lungo i quali scorre la linfa degli alberi, sono frutto di un processo di crescita e di innumerevoli contatti, curvano nella spirale della crescita o si biforcano. In Avvolgere la terra - il colore delle mani la superficie della creta è parzialmente ricoperta da un ingobbio di colore al quarzo, azzurro e bianco. “La pittura è stata data dopo la cottura” ha raccontato Penone nel colloquio al Palazzo delle Esposizioni, “per identificare meglio la posizione delle due mani”. “Due colori che avevo a disposizione”, ha aggiunto, ma in un testo del 2016 che accompagna una nuova serie di opere intitolata Equivalenze troviamo la chiave di lettura per proiettare quei colori – il bianco, l’azzurro e quello della nuda creta – verso altre similitudini: “Il colore di un’impronta, il colore di un soffio, il colore della terra che racchiude i colori delle esistenze minerali, vegetali, animali equivalenti nel tempo” (in Giuseppe Penone. Equivalenze, catalogo della mostra, Gagosian Gallery, Roma 27 gennaio – 15 aprile 2017, s. p.).
Per la lettura di un’opera di Penone, credo sia sempre utile tracciare una sorta di albero genealogico per risalire all’idea originaria e tener conto degli innesti tra opere di natura diversa.
A monte di Avvolgere la terra vi è l’opera Cocci, la cui prima versione apparve nel 1979. Unendo le mani a conca e trattenendo tra le dita un coccio antico, Penone si fece versare del gesso liquido nell’alveo generato dal suo gesto e attese che il materiale si solidificasse. L’opera – il calco con il coccio incorporato – non è nata dalle mani che hanno modellato la materia, ma dalla materia allo stato liquido che si è solidificata tra le mani. Queste, inoltre, non hanno compiuto un’azione frutto sedimentato della tecnica dell’uomo, ma un gesto primordiale (quello di unire le mani a conca per trattenere liquidi o materie solide) che unito alle proprietà organiche del gesso ha generato la forma dell’opera.
Se ci spostiamo direttamente nei rami dell’albero genealogico più prossimi cronologicamente alle sculture Avvolgere la terra, troviamo i lavori Germinazione, realizzati nel 2005, ma esposti per la prima volta solo nel 2013 (“Giuseppe Penone. Germinazione”, Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice, 1 dicembre 2013 - 30 marzo 2014). In queste opere, Penone associa le mani ai rami degli alberi. Realizzate in resina e tenute sospese da cavi di acciaio, le sculture sono frutto di un complesso processo di lavorazione simile a quello della fusione a terra. Un ramo è affondato nella terra, vi lascia la sua impronta e viene rimosso con l‘ausilio di corde. Le mani si sostituiscono al ramo e affondano a loro volta nella terra come radici. Nell’opera terminata, fusa nel calco ricavato dalle impronte congiunte del ramo e delle mani, le mani affiorano dal ramo come gemme.
Le prime sculture della serie Avvolgere la terra apparse a Parigi nel 2014, sono quelle intitolate Avvolgere la terra – ramo datate 2013, nelle quali un grumo di creta, generato dal contatto tra le mani e la materia, è posto in cima a un ramo capovolto.
Nelle sculture esposte al Palazzo delle Esposizioni, quello stesso grumo di materia è ingigantito. Un processo di ingrandimento che si verifica spesso nel lavoro di Penone. Possiamo considerarlo una strategia per rendere evidente il corpo generato dal contatto, costituito in origine da una materia sottile e impercettibile, come il grasso depositato dalla pelle delle mani o il respiro che si modella sul corpo. Nelle parole dell’autore, che procede mescolando dati reali e immaginazione, è un modo di suggerire come la lettura tattile possa sconfinare nello spazio impreciso della percezione (Giuseppe Penone, nel catalogo della mostra citata, Rovereto 2016, p. 148) sino a diventare paradigma universale dell’esistente. La chiave di questo assunto, che ritorna nelle dichiarazioni di Penone, la troviamo nel brano di un suo taccuino.
“Esistono due cose che determinano formalmente il mondo. La prima è il contenuto la seconda il contenitore. Queste due forme sono (…) primarie per necessità e funzione; l’elemento uomo è contenuto nell’aria, nell’acqua, nella terra; l’aria a sua volta è contenuta nella bottiglia, nei sacchetti, nei polmoni; l’acqua nelle bottiglie, nella terra, nell’incavo delle mani, nel bicchiere ecc. ecc., la terra è contenuta, nei secchi, nelle carriole, nella mano, nelle scarpe. Queste due alternative sono anche reversibili, una bottiglia può contenere l’acqua così l’acqua può contenere la bottiglia. La pelle è l’esterno del nostro corpo, è l’elemento divisorio ed esterno del nostro essere che è di volta in volta contenuto nell’aria, negli abiti, nella terra, nell’acqua, ecc. ecc., a sua volta però può essere considerato un contenitore, cioè un elemento che protegge e contiene in un certo senso tutto il resto del nostro corpo”. (Archivio Giuseppe Penone, taccuino n. 12).
Il taccuino risale con ogni probabilità al giugno 1970, quando Penone stava per dare avvio al lavoro Svolgere la propria pelle scegliendo, ora possiamo dire in maniera definitiva, di prediligere il tatto alla vista. La cosiddetta civiltà dell’immagine aveva fatto il suo ingresso al servizio dell’industria dei consumi e crocifisso la vista come il primo dei sensi a essere ingannato e screditato. Alcuni artisti abbandonarono gli artifici ai quali avrebbero potuto accedere grazie alle tecniche inveterate della pittura e della scultura e si fecero paladini di una relazione autentica con il reale, attingendo alle leggi della fisica o al comportamento. Penone scelse l’esperienza sensibile e primaria del tatto come strumento di conoscenza. Forse proprio mentre scriveva nel giugno del 1970, a ventitré anni ancora studente dell’Accademia di Belle Arti, o più probabilmente lungo un percorso che lo aveva già portato a realizzare opere seminali come Alpi Marittime o Albero, focalizzò la nuova percezione della realtà che questa scelta gli avrebbe dischiuso.
L’adesione al reale fu un’eredità comune a molti giovani autori della generazione di Penone, giunta da fonti diverse. In Italia i valori del cinema neorealista, germogliati dalla condanna della Seconda Guerra Mondiale, consegnarono la negazione del linguaggio storicizzato (che nel gergo della nuova generazione divenne decultura) e la pratica della verifica. Un germe arrivò anche dal Realismo professato dai pittori e dagli scultori che in nome della necessità di comunicare agli altri e di cambiare il mondo, condannarono l’astrattismo. In più di una occasione, Penone ha ribadito la sua estraneità all’astrattismo. In un’intervista del 2004 giudica il rifiuto dell’immagine da parte degli artisti italiani una scelta intellettualistica, non aderente al sensibile, vacua; rifiuta la prospettiva iconoclasta e inquadra il suo lavoro nella volontà di dare una nuova necessità all’immagine, una via reale (Entretien avec Giuseppe Penone par Catherine Grenier et Annalisa Rimmaudo, in Catherine Grenier, Giuseppe Penone, catalogo della mostra, Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, Parigi, 21 aprile - 24 agosto 2014, p. 265). L’eredità più evidente, come è noto, venne dal realismo espresso nell’opera in maniera fattuale con il quale gli artisti, sin dal principio del secolo scorso, avevano rinunciato alla solitudine dell’artefice per condividere con il mondo la responsabilità delle proprie invenzioni. Sulla loro scia, giunti allo scorcio degli anni Sessanta, la realtà affiorò ovunque nell’arte. A istituirla fu soprattutto la presenza nell’opera di oggetti ready made, materiali, immagini e comportamenti la cui origine risaliva a un’esperienza maturata al di fuori dell’ambito estetico.
Da subito Penone si interessò ai materiali, maturando precocemente la coscienza di quello che negli anni sarebbe stato il nocciolo della sua poetica, la consapevolezza che nell’azione del contatto accada qualcosa. Rilevò tracce, impronte, calchi, propagazioni, pressioni, biforcazioni, frutto di atti volontari o involontari, e attraverso il linguaggio della scultura, guidato dall’esperienza sensibile del tatto, ma inoltrandosi anche lungo percorsi immaginifici, nel mito o nell’assurdo, ridefinì i rapporti con la realtà, modificando schemi e convinzioni esistenti. Svelò la coesistenza di animali, vegetali, minerali e cose e la loro mutua cooperazione. Dai loro scambi trasse la consapevolezza delle similitudini. Sembra aver messo in gioco la sua presenza – le sue impronte, il calco del suo corpo, l’emissione del suo respiro, le sue mani come in Avvolgere la terra – per entrare in contatto con la materia avvicinata nella condizione attiva e ricettiva dello stato fluido, molle, mutevole, trasformabile, saliente: l’albero che cresce, gli oggetti che assumono le tracce del contatto, il vento che trasporta i semi, la terra che si solleva, l’acqua che devia il suo corso, il gesso che si solidifica, la creta che muta morfologia… Ogni sua azione è nata dall’incontro della sua forza con quella di un altro essere vivente (l’albero) o di un materiale. “L’origine del mio lavoro è nella volontà di un rapporto paritario tra la mia persona e le cose” (in Respirare la sombra, opera citata, p. 10): sin dai suoi inizi, “maturati in un momento di forte reazione al sistema politico e sociale che non permetteva l’indifferenza” (ibidem) considerò l’uguaglianza – l’essere uomo natura, cosa tra le cose (non nell’accezione alienante intesa all’esordio della società dei consumi, ma in quella democratica concepita oggi allo scorcio, forse, di quella stessa società – non una condizione da conquistare, ma un dato di fatto oggettivo da rilevare.
(Ringrazio infinitamente Giuseppe Penone per la ricchezza del suo lavoro e per la pazienza con la quale mi permette di coglierne le dinamiche, ringrazio inoltre il suo Archivio per l’accesso ai necessari materiali di studio e per l’apparato iconografico insieme a Lucilla Meloni per la preziosa revisione del testo e a Irene Santori per il dono di una definizione che non riuscivo a trovare).