Yvonne Rainer
(San Francisco 1934)

Hand Movie, 1966 
video, 8' 

Image courtesy of the Video Data Bank at the School of the Art Institute of Chicago, www.vdb.org 

Hand Movie è il primo film di una serie nota come 5 Easy Pieces in cui Yvonne Rainer mostra la sua mano nell’atto di eludere ogni tipo di significato. Attraverso azioni non funzionali, l’artista sembra voler liberare l’articolazione delle dita in unità autonome non più sottomesse alla coordinazione dell’arto. La mano mostra dunque un'opacità semiotica, restituendo una visione pura del suo essere muscolare. Alla base della ricerca dell’artista – nota per essere tra i membri fondatori del collettivo Judson Dance Theater - vi è infatti una preoccupazione per la materialità del corpo, per i movimenti che resistono alla perfezione tecnica e al virtuosismo teatrale.  

Contenuti speciali

Yvonne Rainer
di Annette Michelson

© Annette Michelson su Yvonne Rainer, "Yvonne Rainer, Part One: The Dancer and The Dance," Artforum, gennaio 1974. Annette Michelson su Yvonne Rainer, "Yvonne Rainer, Part Two: Lives of Performers," Artforum, febbraio 1974. 

 

Prima parte: la danzatrice e la danza

Nel rinnovamento contemporaneo delle modalità performative ci sono due impulsi basilari e divergenti che animano e danno corpo alle sue più importanti innovazioni. Il primo, basato sull’estensione idealista di un passato cristiano, è mitopoietico nelle sue aspirazioni, eclettico nella forma e costantemente attraversato da uno stile dominante e polimorfo che costituisce la traccia più tenace di quel passato: l’espressionismo. I suoi celebratori sono: nel teatro Artaud, Grotowski, nel cinema Murnau e Brakhage, e nella danza Wigman e Graham. Il secondo, sistematicamente laico nel suo impegno verso la concretizzazione, inizia con il cubismo e il costruttivismo; i suoi metodi sono analitici e i suoi portavoce sono: nel teatro Mejerchol'd e Brecht, nel cinema Eisenstein e Snow, nella danza Cunningham e Rainer.

Negli ultimi dieci anni, in questo paese, la nuova danza e il nuovo cinema sono cresciuti e hanno prosperato nel secondo contesto, sviluppandosi come gli esempi più sostenuti e radicali delle sue iniziative estetiche. La condizione di questa radicalità è il doloroso privilegio del non avere una luogo di appartenenza. La nuova danza, come il nuovo cinema, vive e lavora principalmente a Soho e nei quartieri vicini che costituiscono il centro del nostro commercio nelle arti visive. Vivono e lavorano, però, esclusivamente nelle periferie economiche del loro mondo, stimolati dall’operato e dalla produzione di quella economia, ma senza il suo supporto, senza avere un posto nella struttura del suo mercato. La nuova danza e il nuovo cinema sono stati, in parte e completamente, inassimilabili al valore di mercato. Esistendo e sviluppandosi nel loro habitat come fossero in una riserva, sono condannati a una severa riflessività. Il risultato è un’arte di dissertazioni critiche, intensamente autoanalitica, impegnata in ogni momento a chiarire i problemi derivanti dalla costante revisione della grammatica e della sintassi di quello stesso discorso. Se la danza nei suoi esempi più innovativi ha insistito sull’alterazione dei termini della sua trattazione, schiacciata da una relazione alterata tra performer e pubblico, decretando e sollecitando nuove modalità di attenzione e gratificazione, è, in parte, perché il pubblico è diventato esso stesso l’elemento più problematico nella dialettica della performance.1

Il lavoro di Yvonne Rainer che assorbe buona parte della sua energia e della sua coerenza da un’analisi sistematica di quella relazione e di quei cambi di modalità, inizia con un’investigazione iniziale della nozione di Sé Performante e dal riconoscimento del suo carattere discutibile per l’artista contemporaneo. Consideriamo il pezzo Trio A (parte di un lavoro più ampio, The Mind Is a Muscle - La mente è un muscolo, 1966). Trio A appare e si ripresenta, rielaborato, citato, ricordato, variato, nelle performance degli ultimi anni. (In This is the story of a woman who . . . - Questa è la storia di una donna che…, 1972, verrà preceduto dall’osservazione “Lei gli mostra la sua danza” che, verificandosi nel contesto di una struttura narrativa altra, acquisisce una nuova ambiguità). Non è soltanto un pezzo di estremo successo; è una sorta di firma e ha costituito, in quanto parte di The Mind Is a Muscle, una sorta di spartiacque nel lavoro di Rainer, creando una relazione tra una serie di strategie adottate per la sua revisione della grammatica coreografica. Soprattuto, genera un cambiamento nell’esperienza temporale che abbiamo della Danza, e nella funzione del performer; è la congiunzione che testimonia, senza dubbio, il piacere particolare che dà a coloro che lo guardano.

Trio A è profondamente asindetico, procede da un frase all’altra senza pause o transizioni e il suo equilibrio nell’enunciazione, la sua continuità è il risultato del rifiuto della danzatrice di modulare il movimento in modo enfatico; è, in un unico e semplice modo, senza stress o interruzione, un susseguirsi di cose, un ordine veramente temporale di movimenti percepiti vedendoli uno dopo l’altro. Ma questo lo rende un lavoro piuttosto speciale.

Trio A è stato creato in quella revisione generale dell’estetica e dello stile della danza occidentale, determinata dalle considerazioni che viaggiavano parallelamente nella scultura innovativa della metà degli anni ’60. Centrale per queste considerazioni fu la distinzione tra un tempo che potremmo definire sintetico opposto a un tempo operativo, il tempo dell’esperienza, delle nostre azioni nel mondo.

La ricerca iniziò con Merce Cunningham e si radicalizzò attraverso il lavoro di Rainer, Simone Forti, Steve Paxton, Deborah Hay e altri che lavoravano e performavano a New York alla metà degli anni ’60. Il loro obiettivo comune era quello di istituire un’economia del movimento radicalmente nuova. Questo richiese una critica sistematica della retorica, delle convenzioni, delle gerarchie estetiche imposte dalle forme di danza tradizionali o classiche. Quella retorica venne, infatti, rivista, distrutta, da quella che fu riconosciuta come la danza del “linguaggio ordinario” e dell’“esecuzione di compiti”.

Spazio virtuale e scultoreo erano in correlazione con il tempo ritmico e mimetico generato dalla musica e/o dalla situazione narrativa della danza e del teatro tradizionali. Si riporta qui un testo critico che celebra quel tempo e le sue conseguenze estetiche.

Danzando si fa continuamente un passo per poi recuperare l’equilibrio. Il rischio fa parte del ritmo. Un passo per perdere e uno per riprendere l’equilibrio; si continua a farlo, e un passo alla volta la massa del corpo si muove nello spazio. Ma l’azione è più divertente e il rischio aumenta quando chi danza fa un passo che segue il tempo ritmico della musica. A quel punto il battito del tempo forte può sollevare il danzatore mentre fa un passo; può farlo volteggiare in aria per un momento, e il tempo forte successivo può farlo di nuovo. Un ritmo così costante è il sogno di tutti i danzatori, ciò per cui vivono. La leggerezza che la musica dona è una leggerezza immaginaria o immaginativa. Sai che si tratta di un’illusione, ma la osservi mentre accade e godi nel crederle. C’è un po’ di follia nella danza che fa un gran bene a tutti.2

La Nuova Danza degli anni ’60, come la più nuova scultura, ha messo in discussione una stilistica dell’illusione basata su quella nozione di rischio. Ha utilizzato come materiali l’irrazionalità della fantasia o della commedia, ma il suo impulso fondamentale per quanto riguarda la “follia” era, come si sarebbe potuto prevedere, terapeutico. Razionale, oggettivante nella posa e nello slancio, si ripropose di ridefinire la logica spaziale e temporale della danza come massimo esercizio nel raggiungimento della “razionalità concreta”.3

La Nuova Danza, quindi, in modo simile alla nuova scultura degli anni ’60, si ripropose di contestare, punto per punto, le convenzioni estetiche che avevano acquisito uno stato ontologico, riabilitando, inserendo tra le maglie della danza, il compito, il movimento la cui caratterista è determinata dalle sue qualità specificatamente operative. Introducendo giochi e compiti all’interno della struttura della danza, ha dato origine a una specifica logica del movimento e, ovviamente, alla possibilità dell’inversione di quella logica. Utilizzando materiali e movimenti trovati o generati tramite regole, utilizzando tecniche di disgiungimento, creando un confronto tra movimento e musica, e tra suono, musica e parola, tra movimento operativo, movimento registrato (quello del film) e movimento immobilizzato (slide), distese l’arena della temporalità organizzata, installando nella situazione danza un tempo reale o operativo, ridefinendo la coreografia come una situazione entro cui un’azione può prendere il tempo che tale azione effettivamente richiede. Non essendo autonomo, ma neanche generato da pattern ritmici e retorici predeterminati, non fu mai “sintetico”. Il tempo della Nuova Danza mise in gioco, attraverso un iniziale ascetismo che condivideva con la scultura innovativa di quel periodo (quella di Morris, Judd, Andre) una molteplicità di nuove possibilità. Il vocabolario del movimento venne rivisto attraverso un ripensamento del problema del rilascio dell’energia e l’accumulazione di nuovi materiali generò strutture paratattiche.

Trio A non include alcuna attività definita, nessun movimento utile; il suo tempo non è quello “reale” del movimento operativo, ma, come sottolinea Rainer, è piuttosto il “tempo del movimento reale”, “il tempo effettivamente impiegato dal peso del corpo per portare a termine il movimento stabilito. Il tempo richiesto non viene imposto”.4 Voleva dire, quindi, che la nozione di esecuzione dei compiti era stata radicalizzata, diventando esecuzione-dell’-attività-in-corso. Il “tempo reale” di un compito o di un’operazione viene ridefinito come identico a quello della danza. Si potrebbero dire collassati in un solo, nuovo e intimamente indefinito senso del tempo. Il collasso è contingente alla dissoluzione della tecnica di composizione per frase, al rifiuto di una costruzione che andasse verso un’alternanza di apici e momenti di rilassamento che, a quel punto, iniziava a sembrare

eccessivamente drammatica e, più semplicemente, superflua. L’aritificiosità della performance è stata rivalutata, poiché l’azione o ciò che uno fa, è più interessante e importante della messa in mostra di un personaggio o di un’attitudine. Ci si concentra meglio su quell’azione se si sommerge la personalità; idealmente, quindi, non si è nemmeno sé stessi, ma degli esecutori neutrali.5

In altre parole, era diventata colei-che-esegue-il-compito, portando-a-termine-l’attività-in-corso-tramite-la-danza. C’è, in tutti i primi lavori di Rainer, un’aggressione alle condizioni dell’esibizionismo del performer, una rabbia verso il narcisismo che anima il suo slancio verso l’annientamento del Sé; è evidente in diverse cose e molte di queste sono estremamente sottili. La peculiare continuità e risolutezza di Trio A deve molto al fatto che lo sguardo della danzatrice viene continuamente allontanato dal pubblico. (Gli occhi di Valda Setterfield che si concentrano sulla palla che tiene in mano nei passaggi solisti durante le performance del 1972–73 e in Lives of Performers - Vite di performer, operano una variazione su questo tema). Quello sguardo rivolto altrove è un tentativo di creare un corto circuito della proiezione del Sé verso il pubblico, eliminando la condizione di una gratificazione narcisistica. La sua conseguenza è un problema, o una domanda, per lo spettatore. Poiché se chi danza è colei/lui che performa il compito nel/di danzare, lo spettatore, messo di fronte all’“esecutore neutrale”, a quel sé sommerso nell’attività in corso che è la performance, si deve chiedere (e la letteralità della domanda ci dà il metro della sua freschezza e urgenza) “come possiamo distinguere chi danza dalla danza stessa?”.

“Non puoi, né dovresti cercare di comprendere la differenza”, dice questa Performer in quel momento della storia della danza. Ci viene offerta, invece, una struttura spazio-temporale di momenti/movimenti o punti focali equivalenti, costanti, consecutivi, non declinati, in cui abbonda l’uso di slide, oggetti di scena, suoni, film e testi. La distanza dal mimetismo aumenta mentre vengono declamati testi con voci “da lettura” neutrali, anche quando si tratta di discorsi diretti. Il movimento viene citato; c’è un’intrusione della parodia. Sempre di più, la presenza e i movimenti dei performer vengono usati come uno tra i tanti parametri. Questo è il background del comando di “espandere il proprio focus al di là del personale confronto psicologico con il performer”. E infine, in un altro commento rivelatore, “chi performa è il residuo di una forma d’arte obsoleta: il teatro. In che modo chi performa può essere usato come medium piuttosto che come persona. Il ballet méchanique [sic] è davvero l’unica soluzione?”.6 È evidentemente stata una tentazione frequente nella storia della performance di questo secolo, cominciata nei progetti teatralmente utopici di Gordon Craig e arrivata al culmine con le grandi produzioni postrivoluzionarie di Mejerchol'd de Il magnifico cornutoLa morte di Tarelkin, negli spettacoli Bauhaus di Schlemmer.7

Per un modernista americano che lavora nella seconda metà di questo secolo, il ballet mécanique è, per una serie di ragioni, una tentazione meno urgente. E chi danza è particolarmente disgiunto da quell’allargato continuum di produttività che una volta generava un’energia di aspirazioni condivise. Un modernista americano erediterà l’ossessione per la produzione, la terapia, il compito o la risoluzione dei problemi che deriva dalla tradizionale necessità di giustificarsi attraverso i propri lavori. Come abbiamo visto, questo paradigma di iniziativa, dissociato da una più grande comunità dell’aspirazione, genera una strategia formale che produce la nuova temporalità della danza, distruggendo quindi, in cambio, il continuum temporale delle narrazione, l’ordine dell’inizio, metà e fine, in cui si sviluppa la drammatizzazione e il personaggio opera. Questo è un punto di origine per quella dissoluzione formale dell’immagine del performer e del personaggio di fantasia: privato del tempo in cui riesce a svilupparsi o proiettarsi, perde lo spazio metaforico in cui può esistere e operare. È l’utilizzo di quell’ordine temporale come medium della forma narrativa che continua ad essere oggetto di una critica che si estende per tutto il secolo e in tutte le sue forme d’arte. Di seguito due recenti riformulazioni fatte da registi:

Michael Snow: . . . Passaggi quindi, entro cui o dopo cui o prima dei quali posso far presenti delle unità e delle disparità rivelatrici. Ciò che trovo interessante non è la codificazione, ma l’espansione e la comprensione della natura dei passaggi di stato evitando di considerare “l’inizio” più importante di quanto non sia la parola “importante” in questa frase. O di quanto non sia finire così…8

Jean-Luc Godard: Si, i miei film hanno un inizio, una parte centrale e una fine, ma non necessariamente in quest’ordine.

Ma eccone un’altra più antica, piena del potere rivelatore della poesia, nelle righe finali dell’“Anna Blume” di Schwitters:

Anna Blume! Anna, a-n-n-a, lascio gocciolare il tuo nome. Il tuo nome gocciola come il più morbido sego. Lo sai, Anna, lo sai già? Ti si può anche leggere dalla fine, e tu, la più amabile di tutte, sei dietro come sei davanti: “a-n-n-a”.

Sego sgocciola carezzando la mia schiena. Anna Blume, sei un animale da sgocciolio, amo il tuo!9

Schwitters qui palesa l’origine libidinosa della volontà di confondere l’inizio e la fine. Il rifiuto della direzione, o della determinatezza strutturale è connessa con il piacere e l’ambivalenza del nome funge da metafora per il rifiuto di una teologia imposta. Ancor più importante è il modo in cui entrambe sono racchiuse nella divertita insistenza sul corpo come testo, letto in maniera ambivalente poiché di esso si gode polimorficamente. Schwitters è spiritoso, sovrappone l’atto sessuale e l’intellezione suggerendo una fonte di energia per il contemporaneo attacco alla struttura narrativa e ai suoi usi estetici: il desiderio di una gratificazione libera dall’obbligo di avere un fine, la promesse de bonheur. Si inizia anche a intravedere la possibile fonte di quella rabbia antinarcisista che costruisce ostinatamente la dissoluzione del tempo narrativo, come condizione che consenta il confronto tra il pubblico e il performer come “esecutore neutrale”. È la sensazione data da un commercio sessuale sostituito e irrisolto. L’abbandono di una situazione come questa per un talento così capace, una presenza potente come quella di Rainer non può essere stato facile. Ha richiesto più che sola risolutezza: l’invenzione delle molteplici strategie elaborate alla metà degli anni ’60, di cui lo sguardo allontanato dal pubblico è solo un singolo, sottile esempio.

Ho preso in considerazione, in maniera abbastanza generale, aspetti di uno sviluppo che fu essenziale per il lavoro di Rainer degli anni ’60 e per la nostra comprensione dello stesso e del fatto che le sue innovazioni grammaticali e sintattiche fossero parte di qualcosa di molto più ampio che potremmo davvero definire un’aspirazione radicale. Questa analisi non ha descritto o registrato i dettagli della sua molteplicità, delle sue contraddizioni, dei piaceri o persino delle sue innovazioni, del suo continuo umorismo, della sua densità di allusioni e riferimenti, della sua importanza affettiva. Mi sono piuttosto concentrata sul trovare alcuni dei presupposti ai cambiamenti radicali e alle rotture che supportano le sue prime opere e senza i quali il lavoro straordinario e per nulla privo di complessità degli ultimi tre anni, non sarebbe così straordinario o così complesso. Mi rivolgo ora a questo periodo della sua performance, lo stesso che ha portato al suo primo film.

Nella primavera del 1970, Rainer presentò Continuous Project—Altered Daily (Progetto continuo - Modificato ogni giorno) in tre serate successive al Whitney Museum. I performer che la accompagnavano erano Becky Arnold, Douglas Dunn, David Gordon, Barbara Lloyd, Steve Paxton, a cui si unirono alcuni amici che, seguendo un ritmo scelto autonomamente, leggevano testi selezionati. Le perfomance si svolsero in tre aree, una delle quali era il centro della maggior parte delle attività, e includeva l’uso di oggetti, strumenti di scena, “appendici fisiche”, la proiezione di film e suono/musica. Il titolo di questa impresa, come esplicitato nelle note sul programma, venne scelto a partire da un lavoro scultoreo di Robert Morris esposto in quel momento nel museo e di conseguenza ora, in retrospettiva, si può considerare questa congiunzione come un momento interessante, critico e di transizione per entrambi gli artisti.10

La mostra di Morris era stata infatti aperta al pubblico il primo giorno dell’inizio dell’allestimento. Il suo massimo sfruttamento dello spazio e della struttura del museo, dimostrato pubblicamente attraverso l’apertura del processo installativo, permise anche la realizzazione della scultura come lavoro, dell’installazione come strumento capace di fornire un testo di meccanica estremamente chiaro e istruttivo, una dimostrazione su larga scala dell’uso della leva e della carrucola. Artigiani, il personale del museo e l’artista lavoravano al trasporto di enormi componenti in cemento, legno e acciaio, trasformando l’ascensore in un’enorme carrucola che li issava fino al piano della mostra, dove gli allestitori erano pronti a installarli, mentre gruppi di visitatori, armati di registratori, videocamere e macchine fotografiche testimoniavano l’esecuzione dei lavori diretti dell’artista. La settimana dell’installazione e le successive modifiche alle strutture durante il periodo della mostra formarono un solo Continuous Project – Altered Daily.

Il lavoro presentato da Rainer al Whitney quella primavera era un nuovo e decisamente più lungo adattamento del materiale che aveva mostrato al Pratt Institute nel marzo dell’anno precedente. Le performance che cambiavano ogni sera, attingevano da diversi elenchi, il primo tra i quali articolava le possibili modalità di attività nell’esibizione. Queste modalità, elencate nelle note del programma, erano le prove, l’insegnamento, la prova generale, gli allenamenti, le indicazioni, e poi le sorprese e una categoria generale di comportamenti spontanei e improvvisati o non coreografati. Un secondo elenco analizzava i livelli di realtà della performance: primario, ovvero l’interpretazione di materiale originale con uno stile personale; secondario, ovvero l’interpretazione del materiale di qualcun altro con uno stile che è un’approssimazione dell’originale, o lavora utilizzando uno stile conosciuto o “genere”; terziario, ovvero l’interpretazione del materiale di qualcun altro in uno stile che è completamente diverso da/o inappropriato rispetto all’originale. In questa performance, come in altre che l’hanno preceduta o seguita, i livelli preferibili indicati sono B o C, con una priorità per C, garantendo una massima distanza dal mimetismo. Ci si appella a gesti e comportamenti professionali e dilettanteschi che tendono a rendere visibile la distinzione tra performer esperti e inesperti per operare un rapido offuscarsi della distinzione tra le due categorie. L’elaborazione del programma, il modo cui cerca di rendere espliciti gli interessi, i processi e le contingenze che danno forma alla performance, modulano fortemente l’esperienza e il ricordo che lo spettatore ha del lavoro, lo riordinano e spingono verso la sua analisi. La lettura di testi assegnati, rendendo viva la memoria dei performer del periodo dei film muti, sovrapponeva il richiamo a una performance passata e conclusa, con una presente e in evoluzione. Infine, una lista dei “ruoli” e delle “condizioni metamuscolari, visibili e non, che influenzano l’esecuzione di sforzi fisici” conferiva alla performance un’impressione espansiva. Qui un breve estratto della lunga lista:

adolescente

angelo

atleta

bambino autistico

Annette Michelson 

uccello

Barbara Streisand 
Buster Keaton 

rabbia

convalescenza

celibato

costipazione

catatonia

stato indotto dalla droga

disciplina

diarrea

Continuous Project conteneva gran parte delle strategie utilizzate e trasformate nel film che sarebbe stato girato nel 1972. I termini di questo inventario, ad esempio, funzionarono come un modo per approcciare i titoli e gli intertitoli; la loro distribuzione era però lasciata allo spettatore. I titoli, proiettati o scritti sul palco, verranno usati sempre di più nelle performance del 1972 alla Hofstra University e al Whitney, prima di acquisire una funzione strutturale variabile in Lives of Performers.

Il cambiamento principale nella struttura e nella dinamica della performance operato da Continuous Project, però, arrivò dalla nuova enfasi che Rainer poneva sul lavoro con e nel gruppo, attraverso la parziale rinuncia a certi strumenti di controllo che aveva in quanto coreografa e l’accettazione di stimoli e suggerimenti dati dai performer. Continuous Project inaugura infatti un periodo di due anni durante i quali Rainer porterà avanti una linea di lavoro parallela legata all’improvvisazione, a situazioni di studio e interazioni di gruppo che culmineranno in performance occasionali e interamente improvvisate con il gruppo conosciuto come The Grand Union. In queste performance pubbliche la continuità comportamentale non è sostenuta da alcuna preparazione, se non quella scaturita dalla crescente e sempre più intensa intimità nel gruppo e dallo sviluppo della capacità di rispondere in maniera libera e personale.

Riorganizzando nuovamente i miei ricordi e le mie note sulla terza e ultima performance di Continuous Project, del 2 aprile 1970, mi trovo a ripensare in primis alle modalità di apprendimento, insegnamento e sperimentazione. Casi come quello in cui David Gordon e Steve Paxton lavoravano insieme, insegnandosi e testandosi a vicenda; Rainer in una sequenza di auto-tattilità che, esplorando il proprio corpo sempre più velocemente, generava una serie di movimenti quasi spastici; Gordon che lavorava con l’intero gruppo, testando la stabilità di ogni singolo individuo, spingendoli tutti, per poi sistemarsi in un’area, oscillando, di fronte a Rainer, circondato dal gruppo in una sequenza che suggeriva lo sviluppo e la topologia di una situazione d’incontro in un gioco tra bambini. Le “appendici corporali” e gli oggetti di scena erano grandi, strani, intrusivi, modulavano i movimenti in modi così inaspettati da sollecitare le capacità di ognuno, l’ingenuità nella risposta e causare alternativamente il collasso e il successo di una situazione. Gordon fece una sessione oscillante in un enorme sombrero messicano, e una danzatrice, con indosso una fascia addominale, lo aiutò poco dopo con il cappello, mentre Paxton gli teneva la gamba ancorata al suolo. Rainer e Barbara Loyd corsero in cerchio intorno al gruppo mentre oscillavano, con i due ritmi in assoluta asincronia. Si chiedevano spesso e aiuto e, ripetutamente, mentre si osservavano le modalità di interazione e performance trasformarsi in “farcela con un po’ di aiuto dai miri amici”, si vedevano anche la performance e le prove aprirsi nella vita privata di performer/coreografi.

Una conversazione tra Rainer e Douglas Dunn incentrata su una cornice venne dilatata dai movimenti di Rainer che si girava lontano dal microfono in maniera evidente, parlandoci dentro da lati opposti, come nella versione comica di una conversazione a due. È una variante su un “genere” di performance per cui ha una propensione. Mentre la conversazione si concentrava sulla storia dell’arte, Rainer ricordò l’uso che Marjorie Strider fece delle tele vuote e tirate, suggerendo che lei, Rainer, fosse in una posizione più storica di quella di Dunn, ma il riferimento andò ancora più lontano per lo spettatore, arrivando a uno dei primi lavori di Morris, Site. Altri precedenti storici che venivano ricordati: una sequenza che coinvolgeva Gordon e Lloyd in cui Gordon, cercando di raggiungere un qualcosa che era stato posizionato su un cartone molto grande, veniva trattenuto da Lloyd che gli stringeva la gamba, così che nella tensione estrema di quel tentativo di raggiungimento, riproducesse un’estensione della gamba che ricordava il balletto. O di nuovo, ricordi parziali di performance passate venivano evocate brevemente, come quando Rainer e Gordon, uno di fronte all’altro e separati da un cuscino, eseguirono una serie di casquè simili a quelli che scandiscono i balli erotici da sala, come il tango, riferendosi quindi a un lavoro che conosco ma che non ho mai visto: Waterman Switch (Cambio da marinaio).

Oltre ai cuscini, tra gli oggetti di scena c’erano il cappello messicano, una fascia addominale, scatole di cartone, una tela tirata e sia un paio di ali che una coda: modi di essere angelici e bestiali venivano delicatamente evocati come modalità di movimento cariche di comicità, in qualche modo difficili. La parodia era sempre presente o minacciava di apparire. Dopo un “numero di danza” da musical, con sedie e cuscini, Dunn, gettando un cuscino su una sedia, si è passato un braccio dietro la schiena con la nonchalance di Fred Astaire. Le star del cinema muto evocate erano Keaton, Betty Blythe e Loise Brooks, tra gli altri.

Suono, testo, oggetti di scena, movimento e situazioni rendevano possibile un continuo cambio da prova e esibizione a lezione e sperimentazione, oscillando tra il controllo severo della coreografa, il rischio incalcolabile e le incertezze causate da oggetti di scena difficili, dai ritmi e dalle tensioni dello scambio interpersonale. Si percepiva qualcosa di molto diverso dall’effetto delle regole di un gioco, dall’esecuzione di compiti o dal movimento completo, oggettivato e formalizzato. C’era un costante senso di incertezza, si percepivano le tensioni e il pathos della sperimentazione, del fallimento, della ricapitolazione, dell’abbandono o della revisione proiettati in quelle serate di lunghe esibizioni. Il lavoro di Rainer degli anni ’60, sempre attraversato da riferimenti e oggetti personali e carichi di significati, venne oggettivato in una serie di strutture formali e autonome. Lavorando ora nella delicata dialettica del controllo e dell’improvvisazione, iniziava, nei confini prestabiliti di una performance che dura una sera e nei suoi elenchi analitici delle modalità, delle tensioni muscolari, dei ruoli e delle opzioni stilistiche della performance, la loro graduale e provvisoria dissoluzione. Gi elenchi sono testimoni della necessità di ammettere la contingenza, ma in quanto ulteriore oggetto di analisi, ordine, oggettivazione e insistenza, simili al particolare tentativo di Boulez di “organizzare il delirio”. Iniziando a lavorare con The Grand Union mentre portava avanti progetti personali, Rainer cominciò a concentrarsi sulla performance come medium. Solo i performer e la performance erano in quel momento nozioni discutibili. Usando le parole di Paxton:

Il medium sono le persone e ciò che fanno a/e tra di loro. Perché si sviluppasse una mente collettiva, dovettero passare molti anni. I membri di Grand Union venivano influenzati tanto dal loro passato condiviso e dal focus particolare che i nuovi sviluppi avevano sull’azione collettiva, quanto dalle loro stesse decisioni riguardo il loro futuro.11

Nel conseguente periodo di condivisione, Trio A può sembrare il residuo di un passato solipsistico nel suo movimento equilibrato e autonomo e con il suo sguardo rivolto altrove; era maturato abbastanza da poter essere convertito nella serie di variazioni che lo sciolsero per convertirlo in un marchio.

 

*

Nell’inverno del 1970 Rainer fece un viaggio in India, per studiare le performance e l’insegnamento della danza. Quell’esperienza, secondo quanto raccontato dall’artista, fu di un’intensità unica e di enorme importanza per lo sviluppo del suo lavoro. Questo fu per lei, a quanto pare, sorprendente e si resta in un qualche modo sorpresi dalla sua sorpresa. L’essere esposta a uno specifico vocabolario del movimento e del gesto, per quanto di grande interesse, fu meno importante del modo in cui venne costretta a una riconsiderazione della natura e della funzione della narrazione nella danza. Riconoscere la danza indiana come completamente dipendente da una struttura narrativa e fare esperienza delle eccezionali forme ed energie della sua articolazione nella loro connessione al senso dell’ “ambiente morale e spirituale che circonda queste forme d’arte”, pose l’urgenza di una riconsiderazione delle possibilità narrative del suo stesso lavoro.  

Diventò sorprendente per me pensare di aver preso coscienza degli elementi teatrali nella mia danza, ma non li avevo mai sommati per creare una storia. In effetti, tutta la mia enfasi è stata posta sull’evitare di creare una continuità evidente… Avviene una sorta di prestidigitazione nel nostro evitare di lasciare un messaggio chiaro; eppure lasciando l’interpretazione di quello che facciamo al pubblico, vogliamo liberarlo, piuttosto che manipolarlo. In India il lavoro era significativo per il pubblico in tutt’altro modo.12

Questa pienezza di significato fu, come sottolineato dalla sua intervistatrice con l’assenso di Rainer, contingente per un altro fattore totalmente determinante: l’esistenza di una struttura condivisa di credenze religiose ed etiche che pone le basi per le forme narrative e mitiche. Continuando poi il resoconto di queste ultime rivelazioni:

Secondo il metodo americano, ogni persona deve ricavarsi da sola la possibilità di comunicare: non abbiamo continuità, tradizioni, esempi mitologici. Leggiamo l’Iliade e l’Odissea come romanzi, dal nostro punto di vista non contengono alcun precetto morale. Questo ci riporta indietro all’esperienza personale.

Conosciamo queste parole e possiamo ricordarne il suono. Dichiarano ancora una volta l’aspirazione mitopoietica che ha toccato ogni importante poeta dal Romanticismo in avanti, animando le opere di Yeats, come quelle di Biely, di Eliot e Auden e Stevens, di Artaud, ma anche di Blake. Riscoprendo la mitopoiesi come fondamento della forma narrativa, attraverso l’improvviso e immediato accesso a una cultura religiosa, Rainer è entrata in contatto con l’altro impulso imprescindibile che attraversa l’arte del nostro tempo. Attraverso una peculiare lucidità e fedeltà alla sua sensibilità verso gli impegni che lei stessa reputa necessari, trova quell’impulso problematico e, in quanto tale, bisognoso di essere totalmente reinventato. Il vocabolario di gesti e movimenti della danza Kathakali, per quanto rivelatore, le risulterà inutile; allo stesso modo non potrà trovare assenso nei miti della sua stessa cultura. Cercando i materiali di quelle narrazioni, gli spazi delle loro strutture, viene scagliata indietro a una coscienza laica e ironica e alla realizzazione del fatto che “è come se la mia stessa vita contenesse le possibilità di una mitologia”. Queste possibilità sono state esplorate e riesplorate nelle performance più importanti dei due anni successivi, sviluppandosi nella direzione di un lavoro complesso, This is the story of a woman who . . . (Questa è la storia di una donna che…), in una serie di ricapitolazioni, variazioni e accumulazioni. Sono risintetizzate nel film generato da questi eventi, Lives of Performers, nella ricerca sulle modalità e le forme della temporalità di una possibile narrazione portata avanti da Rainer.

 

Seconda parte: “Lives of Performers”

L’immediata conseguenza del viaggio di Yvonne Rainer in India fu Grand Union Dreams (Sogni di Grand Union), eseguita in una palestra grande e sobria della YMHA Emmanuel Midtown, nel maggio 1971. Oggi come allora sembra essere il suo lavoro più problematico, ma ci interesserà in modo particolare in quanto fonte generativa dei suoi futuri sforzi e come punto di partenza per il lavoro specifico su cui ci stiamo concentrando ora:  Lives of Performers.

In Grand Union Dreams, Rainer mostra per la prima volta l’utilizzo di elementi che somigliano a dei “personaggi” fittizi ed è proprio quest’uso che, nel tempo, richiederà l’inserimento dello spazio e della struttura propri della narrazione. I personaggi di Dreams prendono vita tramite designazione. Ricordando, senza dubbio con più di un pizzico di malinconica invidia, le convenzioni e certezze mitiche della danza Kathakali, Rainer divise i suo danzatori in “Dei”, “Eroi” e “Mortali”, ma il concepimento dei personaggi si fermò alla loro designazione. Ai danzatori vennero affidate funzioni e movimenti specifici che riportarono all’utilizzo di oggetti di scena: una valigia da portare in giro, un grande parallelepipedo di plexiglas da attraversare gattonando, una scatola di cartone o una baracca grande il doppio di una cabina del telefono e posizionata contro il muro più lontano dal pubblico, con il lato più prossimo aperto verso di esso e riempita dai corpi dei performer in una coreografia di accoglienza congelata, fatta di “pose plastiche”. La tensione tra la designazione e la funzione, rinforzata dalla recitazione di un testo estrapolato da Jung ed Hesse, era estrema, così estrema da portare a un caotico malessere, dando l’impressione che dietro a ogni movimento vi fosse una funzione simbolica nascosta che rendeva un gesto qualunque capace di trascinare l’attenzione del pubblico. Un performer, una volta individualizzato, veniva presentato come performer. Di conseguenza, Valda Setterfield, della Cunningham Company che aveva appena iniziato a lavorare con Rainer, venne usata (e avrebbe continuato ad esserlo) in modo molto speciale. La sua presenza scenica, il suo umorismo e la sua raffinatezza, le sue spalle strette e cadenti, il suo port de bras da balletto, tutti enfatizzati dal taglio del suo abito da sera in velluto nero, vennero inseriti così com’erano, diventando un punto di riferimento per lo stile della performance: un’altra serie di certezze perdute e convenzioni. È Setterfield a ballare un lento, tracciando grandi archi mentre afferra, allungando il braccio, la palla di cui si prende cura per tutta la durata della performance. Inseguita da un faro che la copre e la scopre, ricordando un’esibizione teatrale classica, viene privata di un contatto visivo diretto con il suo pubblico, come la danzatrice di Trio A. Questo passaggio, insieme a un certo numero di altri elementi presi da Dreams, verrà utilizzato nel film realizzato tempo dopo.

Allo stesso tempo, si potrebbe dire che gli Eroi e gli Dei in questione somigliassero più a Danzatori privi di un luogo di appartenenza o che, come i primi Danzatori, fossero un tutt’uno con le loro funzioni fisiche e spaziali, in una maniera che non associamo normalmente nemmeno ai “personaggi” mortali. Trisha Brown, mentre scende dall’Olimpo e si dirige verso un gruppo di mortali che stanno mettendo alle strette gli eroi, soprattutto Epp Kotkas che stringe la palla rossa, si rivolge a Epp dicendo “Presto vedrai cose di cui non hai mai sentito e che non hai mai visto. A quel punto capirai cose che non potrò mai rivelarti. Ma devi restare sveglio. Le potrai vedere una volta soltanto”.

Trisha Brown, volendoci concentrare su un solo personaggio all’interno del gruppo Olimpico, ha a quel punto eseguito o, volendo, dato corpo, a un’attività di espressione e movimento: la si vedeva come un’insieme di compiti, attività, assegnazioni, piuttosto che come qualcuno impegnato nell’atto di interpretare un ruolo o un personaggio. La disgiunzione tra le specificità fisiche della sua attività e i suoi riferimenti mitici era assoluta. Grand Union Dreams continuava a disfarsi mentre lo si guardava: questa disgiunzione lo riduceva a brandelli. La sensazione lasciata dai riferimenti, la costante promessa di una spiegazione dei simboli, la tensione dello slancio verso quella spiegazione, erano più o meno frustranti. Era come se la scena dell’azione non fosse lo spazio in cui il movimento veniva eseguito, ma un qualche spazio indefinito e segreto in cui le designazioni avrebbero avuto un qualche significato e i suoi personaggi un impulso vitale: un luogo altro che potrebbe essere effettivamente fittizio. Grand Union Dreams, a quel punto, ha enunciato nella sua mancata soluzione i sintomi di uno “shock culturale”: la crisi prodotta dalla scoperta della persistenza del credo e della narrazione nella coscienza laica di un’artista modernista.

Si presume che sia stata la consapevolezza del carattere problematico e provvisorio del tentativo di risolvere quella crisi a portare Rainer a dichiarare, nel programma distribuito in occasione della performance, “questa è la prima di una serie di versioni”.

Il problema da affrontare a quel punto, era la definizione di nuovi termini per la composizioni di strutture narrative coerenti con la coscienza laica e modernista. Come sarebbe stato possibile, infatti, creare un lavoro narrativo senza cadere nella tentazione dell’illusionismo del racconto e dei riferimenti mitici? La sua risposta fu intelligente, se non immediatamente esaltante. Per prima cosa, ricadendo, come ha fatto, sul terreno dell’esperienza privata e personale, nell’idea che la propria vita fosse sfruttabile tanto quanto qualunque altro materiale (almeno più accessibile, più utilizzabile). Successivamente arrivò all’individuazione delle risorse narrative di ognuno nelle forme e retoriche pertinenti alle situazioni psicologiche che compongono il repertorio del dramma domestico, riconoscendo che in esse si ritrovava un’autenticità proporzionale al proprio investimento di energia emotiva. Infine, la convinzione che la cultura analitica di ognuno, se messa davanti a una disgiunzione (tra il suono e l’immagine, il presente e il passato, il personaggio e la voce, la lettura e la parola) che restituisca il Sé frammentato che sta al centro di un dato racconto, fornisca il punto di partenza per una serie di variazioni formali.

A seguito di queste decisioni, alcuni elementi di Dreams torneranno ad essere utilizzabili. Tra loro, e in aggiunta all’assolo di Setterfield, ci sono la Scatola e alcuni specifici momenti pensati per un gruppo durante una prova che animeranno la successiva importante performance al Whitney Museum, nel 1972. Da questo momento in avanti, infatti, le performance dal vivo e il lavoro per il film sono sempre più fuse insieme, tanto che gli elementi della performance alla Hofstra University, rielaborati per un’altra eseguita al Whitney Museum, mostrati in una prova aperta all’Hunter College, eseguiti, in una versione in qualche modo alterata, al Festival d’Autunno di Parigi del 1972, e presentati al Theatre for A New City di New York (nella primavera del 1973) hanno gettato le basi per il lavoro sul suo secondo film, in produzione in questo momento: This is a film about a woman who . . .

Parte del materiale di Dreams venne riutilizzato, ma è stato soprattutto l’interesse per le modalità di finzione e le tattiche di disgiunzione a vegliare sui suoi ultimi lavori. Ed è proprio in questi lavori che “La trama s’infittisce”, creando Lives of Performers.

Si tratta del primo film di Rainer, completato all’inizio dell’estate del 1972. La sua durata filmica, o di esecuzione, è di 120 minuti. Costituisce, ovviamente, un deciso passo indietro e in direzione opposta all’abbandono delle modalità di regia e composizione del lavoro che aveva animato i due anni di associazione con The Grand Union. Il lavoro su Lives mise davanti a Rainer una nuova modalità di sforzo collaborativo e una gratificazione intensificata dalla produzione di un’opera che, seppur delimitata nel tempo, lascia delle tracce. La sua collaboratrice principale per Lives, escludendo i performer, fu Babette Mangolte, le cui eccezionali doti di operatrice di camera sono strettamente legate all’attenzione ricevuta da questo film e al suo successo. Lives prende forma a partire da uno “scenario” piuttosto lungo e complesso, composto da materiale che Rainer ha collezionato per circa un anno. Il fine movimento di camera di Mangolte, il suo montaggio, evocano un’altra presenza articolata con delicatezza, costante e aggraziata. Il suo uso della luce inoltre, conferisce allo scarno spazio di un loft, ai suoi paraventi in carta, agli oggetti di scena l’assoluta nudità delle cose dotate di un’eccezionale e riservata eleganza.

Il film è composto da diverse parti, sequenze o pezzi che gli conferiscono, nella sua totalità, l’aspetto compositivo di un recital. E non può in alcun modo essere descritto come un lavoro unitario; le sue parti, seppur non totalmente disgiunte l’una dall’altra, funzionano come variazioni su un numero di strategie e temi dati. Rainer utilizza la disgiunzione principalmente per creare un’apparente continuità narrativa applicata a situazioni che, comunque, vengono percepite come decisamente separate, se paragonate a un’idea di insieme narrativo avvolgente. Il film inizia a quel punto a proiettare una serie di variazioni sui suoi temi e sulle sue strategie. Il testo, in parte inserito nei titoli, in parte letto da una voce fuori campo, racconta le complesse interrelazioni che si sviluppano tra i performer durante le prove. Bisogna ricordare che frammenti di questo scenario sono stati eseguiti “dal vivo” insieme al loro testo al Whitney Museum e che l’evidenza di o il riferimento a queste presentazioni è visibile nel film, di solito attraverso la risata registrata di un’audience divertita e consapevole, catturata durante la performance. Il risultato ha una temporalità molto complessa. Voci fuori campo rivisitano eventi passati fittizi che hanno come protagonisti versioni immaginarie, per così dire, dei performer reali i quali, utilizzando il proprio vero nome, ricordano gli eventi del passato fittizio, facendo talvolta riferimento a performance reali (quelle di Grand Union Dreams o di Inner Appearences). La complessità temporale di questa sorta di sovrapposizione viene a volte intensificata dalla condivisione o dallo scambio dei ruoli. Un dialogo inizia con Yvonne e due performer, Fernando e Shirley, raggiunti poi da Valda e John. Yvonne, la regista, offre determinate informazioni, mentre Fernando e gli altri performer discutono le sfumature dei cambi di sensibilità e l’impegno che anima la loro complessa interrelazione. In generale le interrelazioni, seppure continuamente spiegate in quella lingua di autoanalisi quasi maniacale che caratterizza la vita e l’amore in una cultura in continuo dialogo con la terapia, non sono sempre chiare. Il ruolo di John è particolarmente fumoso e ad un certo punto Yvonne annuncia che sarà lei ad interpretarlo. Nonostante testi letterali ed eroi culturali vengano a volte citati ed evocati, c’è in fondo una sola modalità di discussione intellettuale che dà forma all’“azione” di questo film e ai suoi “personaggi”: quella della psicanalisi, nelle sue modalità più nuove e revisioniste. Molto del materiale presentato in Lives è allora quello del dramma e della commedia borghese, la successione di piccole crisi e risoluzioni, le minuscole agonie e appercezioni di un ambiente che esiste completamente all’interno dell’area della performance e delle prove, la sua analisi incrociata dei motivi e delle intenzioni che si espande per riempire la totalità del suo intero spazio psichico.

Nella prima parte di questa ricerca (pubblicata il mese scorso), ho fatto riferimento al carattere riflessivo della Nuova Danza e al modo in cui il suo divorante carattere auto-analitico sia per certi versi subordinato all’intensa severità degli spazi sociali in cui fiorisce. Rainer, nel suo primo film così come nelle performance che lo hanno preceduto, gioca con l’ambiguità psicologica come se, avventurandosi per la prima volta nella creazione dei personaggi, desiderasse preservare il loro punto di origine concreto in un contesto estetico al di fuori della finzione. I performer, quindi, mantengono i loro nomi in un groviglio di interrelazioni totalmente inventate. Lives of Performers è, tra le altre cose, la costruzione di una serie di marivaudage privi di gioia, in cui i protocolli e gli scambi autoanalitici sono pieni dell’austerità altezzosa di chi vive a Soho. Queste ambiguità parlano ovviamente ad un gruppo piccolo, seppure crescente, di entusiasti che subiscono la seduzione triviale di un romanzo a chiave. Piena di allusioni a problemi e agonie privati e non - alcuni articolati, si potrebbe sospettare, a partire da citazioni prese da diari privati e/o rivelazioni psicoterapeutiche e appercezioni - la struttura del film propone, in maniera ben più interessante, i possibili usi di questi materiali, come questi si possano mantenere a distanza, come si possa estrarre una potenza formale da queste costrizioni e ambiguità. Lives inizia quindi con una citazione dagli scritti di Leo Bersani sulla natura e il valore del cliché in quanto principio di intelligibilità. Mentre il film procede non si sente il dispiegamento assoluto e chiaro di questo principio, ma se ne percepisce la presenza intermittente, in quanto agente formalizzante che ha sostituito il mito.

La prima sequenza di Lives of Performers non è però una performance, ma riprende Rainer e i suoi colleghi-personaggi durante le prove per una futura performance al Whitney Museum. Il carattere ripetitivo, una componente formale del particolare movimento che viene provato, ha un’eco o viene confermato dal movimento di camera ed è forse il momento del film in cui quest’ultimo è più attivo e sostenuto. Questo movimento descrive, in una cadenzata serie di rotazioni e inclinazioni, la ripetizione di un quadrilatero discreta, ma costante e implacabile. Non sentiamo la colonna sonora fino a quando non siamo già parzialmente dentro la scena e lentamente diventa ovvio che il dialogo è stato estratto da un altro momento delle prove decisamente diverso da questo. È come se Rainer stesse dando delle istruzioni (1, 2, 3, 4… l’inizio) segnando lo schema per il movimento di camera.

In questa sequenza di apertura, Rainer e Mangolte stabiliscono una serie di variazioni su un fattore che ovviamente è particolarmente interessante, centrale in effetti, per il film sulla danza: la modalità di articolazione dei movimenti per sineddoche attraverso il rapporto ottenuto tra piani ravvicinati, medi e lunghi. Rainer e Mangolte sono, nell’insieme, piuttosto libere e non restano statiche nella gestione dei movimenti delle coreografie di gruppo. Si possono, per esempio, isolare delle inquadrature in cui lo spazio totale dello schermo è incorniciato dal primo piano di una testa e di un busto con le braccia allungate o da dei piedi nell’angolo in basso a destra o sinistra dell’inquadratura. La misura delle inquadrature varia a partire dalla dimensione appena descritta per arrivare ai campi lunghi e tutte vengono utilizzate, completamente. E vi è probabilmente una ragione per cui questa varietà è così appropriata per la Nuova Danza. Si sa che Nureyev, durante la supervisione delle recenti trasposizioni cinematografiche e televisive di importantissimi lavori di Petipa, ha insistito sul mantenimento continuo del campo lungo. E, per certi versi, ha un senso che le qualità del portamento, della presenza, il ballon e la pienezza dei gesti che caratterizzano lo stile del balletto in generale e quello di Nureyev in particolare, richiedano l’uso di campi e sequenze lunghi. La danza richiede che la continuità spazio-temporale della messa in scena si manifesti nella sua interezza. Perché nono sono chiaramente i racconti de La bella addormentata o del Don Chisciotte che richiedono, anzi esigono, l’integrità dell’illusionismo cinematografico. È piuttosto la rappresentazione della realtà del balletto eseguito dalla danzatrice che si muove nello spazio del teatro, a imporla.

Yvonne Rainer, nei suoi primi appunti, proponeva la seguente sequenza di movimenti: “Gira la testa da un lato all’altro mentre le mani spingono le orecchie come semafori. Parla dolcemente, nomina una parte del corpo, muovi quella parte. Nomina un’altra parte etc. Rendi il tutto continuativo”. È nella sineddoche filmica che Rainer arriva ad operare questo lavoro analitico e ostensivo sul corpo in movimento; il montaggio assertivo mantiene l’intensificazione cinematografica di questa continuità.

Le prove finiscono (“si dissolvono”) in una risata. Un titolo, “all’improvviso la nostra attenzione svanisce”, introduce la transizione alla sequenza successiva. I titoli vengono usati in modo continuativo e variegato. Sono stati segnalati in performance precedenti tramite l’uso di lunghe note al programma, presentazioni di liste, nomenclature e anche nell’uso sempre più diffuso di slide e nell’utilizzo occasionale di scritte su una lavagna. I titoli commentano le azioni del film e i moventi dei personaggi. Parlano per i personaggi, direttamente o tramite l’uso di virgolette. Presentano delle citazioni letterarie, la retorica del cliché. Permettono un’eloquenza personale non appesantita da un’espressività mimetica. È come se Rainer riscoprisse le molteplici funzioni dei titoli nel cinema muto americano e sovietico. [Si pensi a Maschio e Femmina di De Mille (1918), un film in cui la narrazione viene rinforzata dalla costante introduzione, operata tramite i titoli, di metafore verbali].

Al titolo segue la seconda sequenza più importante di Grand Union Dreams, in cui un certo numero delle strategie alla base del film vengono ricondotte a quella performance. Vediamo una successione di otto fotografie di Grand Union Dreams. Vengono però viste davanti a uno sfondo di materiale dattiloscritto che è poi la sceneggiatura di Lives of Performers. Il dialogo fuori campo, recitato da Yvonne, Shirley e Fernando, inizia con la lettura di queste fotografie rivolgendosi, presumibilmente, allo spettatore. Viene offerta un’analisi descrittiva della natura della performance. Ovvero:

Nella prima foto Epp e James stanno duettando. David e Yvonne hanno appena finito di trascinarli sull’erba finta all’interno di un piccolo arco. Quando si tirano su fanno ondeggiare il torso e la testa all’unisono, mentre si passano la palla rossa. Stanno per raccogliere l’erba per includerla nel loro ondeggiare. Valda aspetta. La mia domanda è “Che significa?” Stanno celebrando qualcosa? Si, mi sembra una buona interpretazione: Epp e James stanno facendo una danza di piacere per l’arrivo della primavera.

E ora inizia il dialogo tra Shirley e Fernando (il cui accento spagnolo, estremamente pesante, è in qualche modo in contraddizione con il linguaggio semplice del suo testo): “In realtà era primavera quando avete iniziato a lavorare a questo pezzo, e quando ti ho incontrato per la prima volta, Fernando. Penso che certe persone siano venute a casa tua dopo quella prima prova”. Lo scambio di ricordi tra i due personaggi che ora sono presunti amanti viene a volte interrotto da Yvonne che, prima di esaminare la fotografia numero quattro, dichiara “Questa è in disordine”. Vengono raggiunti nel sonoro da Valda e il dialogo sfuma in una discussione sulle fonti iconografiche e testuali di Grand Union Dreams. Mentre si svolge questo lento cambio, il discorso di Yvonne, rivolto a Shirley si trasforma, in una spiegazione della sua strategia, ma si concentra anche sulle inflessioni del discorso diretto o sulla sua mimesi. Una discussione sulle qualità di un determinato testo di Jung suscita in Yvonne la necessità di confessare il suo presente rifiuto di una

Debolezza per le rivelazioni travolgenti dei grandi uomini e la sua intenzione di portare avanti il prossimo concerto (Whitney, 1972) in maniera così diversa rendendolo semplicemente un’altra forma di racconto più intima, meno epica. Andando sempre più nel dettaglio nella sua confessione, suscita in Valda la domanda “Stavi leggendo o parlando?”.

In questa sezione le fotografie vengono quindi offerte come documenti di una performance passata. La sovrapposizione di un passato fittizio viene presentata come se portasse al generarsi di una performance futura, ovvero quella registrata nella prima sequenza. E la sequenza finisce con lo specifico avvertimento che Rainer fa a noi, dicendoci che si sta allontanando dalla tentazione del mitico (le rivelazioni travolgenti dei grandi uomini), dalla tentazione dell’epica, per entrare in una ricerca più intima.

Quando le viene chiesto se stesse leggendo o raccontando il suo ricordo di quanto accaduto, ha risposto: “Mi sto ricordando di Hofstra”. È un riferimento a una performance precedente fatta alla Hofstra University, in cui venne usata per la prima volta la documentazione fotografica di Dreams, e la risata che accoglie la sua risposta ci fa capire che stiamo ascoltando un sonoro che ha registrato l’utilizzo, durante una performance al Whitney Museum, dello stesso materiale che, hai tempi, causò la reazione divertita del pubblico abbastanza consapevole del Whitney. Gli spettacoli e i racconti che hanno accompagnato le immagini sullo schermo fino a questo punto, quindi, includono tre distinti punti temporali passati. Questo momento filmico presente, in qualche modo disgiunto e multiplo, verrà nuovamente esposto da un’altra registrazione delle risate del pubblico, durante uno scambio tra Shriley e Fernando in cui vengono enunciati i termini dell’ambivalenza e della vulnerabilità di lei. Il momento intensamente introspettivo di Shirely viene interrotto dall’entrata di Valda, nel suo abito da sera, che annuncia di aver visto un film. La risposta, inclusa in un titolo, è “Ricordo quel film, parla di tutti quei piccoli tradimenti, non è vero?”, e ora diventiamo testimoni dell’attuazione formalizzata di un’altra situazione fittizia (cliché). Valda che risponde “Potresti descriverlo in quel modo”, inizia ad estrarre da questa particolare convenzione narrativa la pienezza della sua forza archetipica e ripercorre, con una recitazione fuori campo, le tre possibili versioni, soggettivamente condizionate, di un triangolo domestico che “tratta anche di un uomo che ama una donna e non può lasciarla quando si innamora di un’altra donna. Voglio dire che non sembra in grado di decidersi”. Questo piccolo dramma di ambivalenza e colpa viene recitato quando vediamo Valda, Fernando e Shirley in un campo lungo, allineati davanti a noi, che piroettano gli uni tra e verso gli altri, in una coreografia elementare che concretizza i termini del triangolo, in una formalizzazione estrema di una situazione drammatica. E questa formalizzazione introduce un’ulteriore estensione e complicazione delle relazioni che, fino a questo punto, sono state individuate come centro narrativo del film. È in questo momento che viene introdotto John, ed è sempre qui che John e Valda iniziano a venire coinvolti nel dramma che si sta sviluppando tra Shirley e Fernando.

La camera presenta questo dramma in maniera molto intima, attraverso dei primi piani che esaminano il pavimento e il letto della camera spoglia. Yvonne e Shirley commentano: “È stanco dell’indecisione. Lei non sa cosa fare”. A questo commento segue la rivelazione che “lei ha sempre operato in una forma che svanisce non appena si rivela”. Questa riflessione, carica di implicazioni rispetto all’ambivalenza emotiva di Shirley, è accompagnata da un abbraccio, durante il quale la camera viaggia lentamente dal basso verso l’alto inquadrando i corpi uniti di Fernando e Shirley, per poi ridiscendere lungo i loro corpi, ora separati.

La camera da letto in cui questi drammi si svolgono non è, ovviamente, una vera stanza, ma piuttosto, come indicano i paraventi in carta che ne delimitano le aree più lontane, uno spazio scenico. L’intrusione degli oggetti (la valigia di Fernando, per esempio) è quindi epocale, e l’arredamento spartano li investe di un peso e di un’intensità particolare: quella degli oggetti di scena.

I personaggi entrano ed escono da questo spazio scenico in maniera in qualche modo teatrale. Così Valda, che discute delle complessità della sua relazione con John e Shirley, propone un’analisi attraverso un inventario di possibili versioni di un’altra situazione “classica”: le reazioni che si hanno entrando in quella stanza in presenza di uno o due membri del triangolo. Queste sono “messe in atto” in maniera audace e inequivocabile, in una serie di riprese separate da jump-cut intrusivi: Valda che entra e nota o non nota la loro presenza, Valda che è affettuosa, indifferente, pensierosa. Questo spazio scenico può essere facilmente trasformato nello spazio di un sogno e, mentre Shirley racconta quel sogno, vediamo, in slow motion, un bambino che fa rimbalzare una palla mentre sullo sfondo un gatto lo guarda. È più che altro una trasposizione cinematografica del ritratto di un principino dipinto da Goya. Shirley sta sognando un muro (“non è né di cemento né di metallo, ma piuttosto fatto con una rete di acciaio”, il che ne indica la trasparenza) oltre il quale si intravede un parco giochi; il superamento di questo confine produce un’esperienza di rilascio e benessere. Mentre descrive il muro percepiamo, piuttosto che vedere, un limite che ci separa dal bambino che gioca; è il limite del campo visivo della videocamera, che fa sì che la palla stia rimbalzando lontano da noi, la sua direzione declinata dall’invisibile e impalpabile limite dell’illusione cinematografica.

L’ultima importante modalità di rappresentazione narrativa nel film è costituita da una lunga serie di inquadrature che inseriscono Valda, John, Shirley e Fernando in un tableaux vivant. Li vediamo di fronte a uno sfondo nero in delle pose fisse che suggeriscono un’azione drammatica immobilizzata, molto simile alle fotografie di produzione dei film. Nel silenzio assoluto si sta svolgendo un dramma tutto fatto di titoli, i commenti sono terminati. I Performer hanno abbandonato le prove per seguire i loro drammi privati. Sono parte di un’altra narrazione e seguendo la traiettoria dei loro sguardi, sentiamo che la tensione dei corpi, gli improvvisi cambi negli accessori dei costumi, l’illuminazione artificiale dello studio costituiscono un ulteriore mondo fittizio in cui gli impulsi di crudeltà, colpa e violenza vengono interpretati utilizzando un registro di intensità completamente diverso. Stanno in effetti interpretando dei momenti tratti da un altro film, Il vaso di Pandora diretto da G. W. Pabst nel 1928 seguendo il dramma di Wedekind. Si sono mossi, quindi, dalla formalizzazione di un triangolo domestico archetipico visto come una coreografia, per arrivare alla proiezione di un lavoro filmico visto attraverso la fotografia. I tableaux, infatti, non sono stati estratti direttamente dal film, ma piuttosto dai fermo immagine che accompagnavano la versione della sceneggiatura pubblicata nel 1971 da Simon and Schuster. La nozione del cliché come principio organizzativo, in sostituzione dell’archetipo, viene radicalizzato e reso letterale in questa sequenza finale: il dramma psicologico viene completamente concretizzato in pose che si susseguono in silenzio, estrapolate dalla trasposizione fotografica di un film. In ultimo arriva la musica e Lives of Performers giunge alla fine.




  1. Ho elaborato queste considerazioni in maniera dettagliata nel mio saggio per il catalogo della mostra di Robert Morris’ alla Corcoran Gallery, novembre-dicembre, 1969, in Robert Morris: An Aesthetics of Transgression, Washington, D.C., The Corcoran Gallery, 1969.
  2. Edwin Denby, Dancers, Buildings and People in the Streets, New York, 1965, p. 165.
  3. Si fa qui riferimento alla nozione di Pierce della “concreta ragionevolezza” e alle sue implicazioni nell’arte, un’idea accennata nel mio resoconto della mostra “10x10” alla Dwan Gallery, pubblicato su Artforum, gennaio 1967.
  4. Yvonne Rainer, “A Quasi-Survey of Some Minimalist Tendencies in the Quantitatively Minimal Dance Activity Midst the Plethora, or an Analysis of Trio A,” in Minimal Art, A Critical Anthology, ed. Gregory Battcock, New York, 1968, p. 270.
  5. Ibid.
  6. Yvonne Rainer, annotazioni inedite per Trio A.
  7. Non è casuale o sorprendente che uno sviluppo coreografico collegato da vicino all’arte della metà e dei tardi Anni 60 e, in particolare, all’impulso che conosciamo come “minimalista” ci riporti al precedente storico del costruttivismo. Come i lavori di Morris e Andre ci hanno portati a una lettura fresca di Tatlin e Rodchenko, così, invece, le serie di importanti produzioni biomeccaniche anticipano, evocano, un gruppo di danzatori sintonizzati sull’esecuzione di un compito come compito dell’esecuzione. Nel set per Il magnifico cornuto, le componenti architettoniche sono posizionate a terra: nulla dipende dalle americane; i costumi sono sostituiti dagli abiti da lavoro; non viene offerto nessun oggetto di scena o mobile o spazio in cui far svolgere il dramma dell’interiorità. Ogni componente architettonica sollecita una risposta intensa, fisica, totalmente oggettivata. E la rivoluzione di un disco colorato rende oggettivo, misura e mostra il passare del tempo.
  8. Lo stile mejhercol'diano, la sua omogeneità biomeccanica oggettivante, sono supportati però da un contesto più largo e pervasivo, quello della società di Costruzione Socialista basata sulla produzione, in cui l’abolizione delle classi pose le fondamenta per un totale riassestamento dell’arte e degli artifici. È proprio in quell’abolizione che i confini tra interno ed esterno, scultura e architettura, ozio e attività produttive potevano essere riconsiderati e portare nuovi significati. Sono la grandezza e la radicalità dell’impresa rivoluzionaria che danno ai Monumenti di Tatlin quel peculiare potere iconico e al lavoro di Mejerchol’d, la risonanza che ancora li circonda. La risonanza e la radicalità si basano su un’aspirazione comune, il compito immenso della Costruzione Socialista e i suo processi di lavoro analitici.
  9. Michael Snow, “Passages,” Artforum, settembre, 1971, p. 63.
  10. Schwitters, “Anna Blume,” in Hans Richter, Dada: Art and Anti-Art, New York, 1965, p. 141. La traduzione è ristampata qui con qualche leggera modifica.
  11. Steve Paxton, “The Grand Union,” The Drama Review, settembre, 1972, p. 131.
  12. Yvonne Rainer, “Response to India,” The Drama Review, Spring, 1971. Questa citazione e quelle che seguono sono estratte da questa intervista.



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