Diego Perrone
(Asti 1970) 

Senza titolo, 2016 
vetro 

Senza titolo, 2016 
vetro 

Senza titolo, 2016 
vetro 

L’artista, Massimo De Carlo Milan/London/Hong Kong

La serie di sculture Senza titolo di Diego Perrone è realizzata con una particolare tecnica di fusione del vetro, colato in calchi in gesso e lasciato risposare a lungo. In forni ad alta temperatura, minerali, ossidi e pigmenti agiscono incontrollati nel modificare l’oggetto scultoreo. Nell'immagine che sembra emergere da questo processo possiamo riconoscere la superficie di un profilo abbozzato, una partizione di spazio che restituisce il pieno e il vuoto di un mondo interiore e cristallizzato. Grazie alle trasparenze che si vengono a formare, le sculture restituiscono la visione di un paesaggio liminale che si situa tra interno ed esterno, tra pensiero ed epidermide, tra visibile e invisibile.

Contenuti speciali

Diego Perrone, o della distorsione
di Luca Cerizza

Tratto da Diego Perrone a cura di Luca Cerizza, Mousse Publishing, Milano 2021

 

“[…] nonostante la stranezza delle sue opere, è difficile… contestare la semplice verità della sua arte […]. Ciò che caratterizza tutta la sua opera è l’eccesso, l’eccesso nella forza, l’eccesso nella nervosità, la violenza dell’espressione […]”.1

 

Fino a oggi, la lettura del lavoro di Diego Perrone si concentrata soprattutto sui contenuti delle immagini e delle (micro) narrazioni che l’artista ha messo al mondo, sulla parata di creature bizzarre che popolano le sue opere: re che ridono, manga che arrossiscono, uomini e donne anziani che stringono corna di animali; e poi oche e mufloni davanti a una telecamera, un noto attore comico italiano che si spoglia completamente nudo, un cane sul punto di morire; e ancora profondi buchi scavati nel terreno, orecchie che vengono mutilate o modellate in diverse scale e materiali e teste popolate di trattori, di pesci e di altre orecchie ancora. Un ricco campionario di immagini e personaggi che sollecita una lettura di tipo simbolico della sua iconografia. È un esercizio critico affascinante, che può attraversare i terreni dell’iconologia e della psicanalisi, della narrativa e della sociologia, e che io stesso ho in parte praticato.2 D’altro canto, è forse ugualmente importante capire come e perché queste immagini e forme sono state prodotte e cosa, attraverso queste opere, si può leggere della relazione dell’artista con se stesso, con il mondo e con l’arte a lui coeva. Per questo motivo, pur consapevole di alcune necessarie semplificazioni, ho scelto di circoscrivere buona parte del percorso di Perrone all’interno di un’unica categoria formale e concettuale. Rintracciare un comune sentimento in un ampio numero di opere, all’interno della grande varietà dei mezzi espressivi e risultati formali adottati in questi anni (dalla fotografia al video, dalla scultura al disegno), come prodotti di un atteggiamento che si direbbe “post-mediale”, tipico della sua generazione, può aiutare a sottolineare la coerenza di un percorso lungo ormai venticinque anni.
“Distorsione” è la parola magica che, insieme al suo sinonimo “deformazione”, lo stesso artista ha pronunciato in più di un’intervista in relazione al suo lavoro, e che io vorrei ripetere qui, quasi a confermare la diagnosi di una malattia, di una “infezione” che penetra nel corpo e nella mente di tante sue opere, soprattutto di quelle prodotte nell’ultimo quindicennio. Definito dal dizionario Treccani come “spostamento o deformazione che provoca un’alterazione della forma o dell’atteggiamento naturale”,3 il termine è applicabile a una varietà di contesti che vanno dalla medicina alla meccanica, dall’ottica all’elettroacustica e alla musica. Per il nostro discorso, “distorsione” andrà intesa in una doppia accezione: da una parte come un approccio “alterato” alle caratteristiche e possibilità di un medium specifico; dall’altra come un espediente linguistico che si applica all’aspetto visivo dell’opera. Nel primo caso, è caratteristica di natura metodologica e mentale, nel secondo, di natura formale, se non fisica.

  

Contro il medium

“[…] è un continuo deformare, distorcere, dall’inizio alla fine, anche le cose che hai buttato. Partendo da un punto e arrivando a un altro, restando piuttosto in balia del processo che stai, praticamente, inventando”.4

 

Il primo indirizzo – la distorsione delle possibilità espressive e tecniche specifiche di un medium – accompagna il lavoro di Perrone già dai primi anni Duemila ed è strettamente collegato a una interrogazione della figura dell’artista e della sua identità. Come abbiamo già osservato, buona parte del primo decennio del suo lavoro “appare attraversato da una continua, seppur metaforica, riflessione sulle ragioni e le possibilità del fare arte”.5 L’“incoronarsi” con una gallina è forse l’autoproclamazione di una eccezionalità del giovane ragazzo come artista allora agli esordi (la fotografia Senza titolo, 1994); chiedere a Dario, suo amico di infanzia, di costruire una capanna di rami e foglie sul greto di un fiume e registrare le fragilità del pensiero e le incertezze della statica che guidano il suo farsi appare come una celebrazione della libertà di percorrere itinerari immaginativi non convenzionali: un monumento precario alla possibilità dell’artista di abitare il mondo (il video La terra piatta è una dimensione lirica del luogo, come se regredire fosse inventare, 1999); scavare per un anno profondi buchi nel terreno in condizioni climatiche difficili, cercando di estrarre un vuoto, non è solo il tentativo di dare evidenza fisica a un pensiero astratto, ma anche una chiamata di responsabilità dell’artista: giustificare eticamente il senso della propria creazione tramite uno sforzo immane (la serie fotografica I pensatori di buchi, 2002); o ancora, il vecchio Totò che si spoglia fino a rimanere nudo, nell’oscurità di un bosco, non solo incarna il desiderio del vecchio attore comico di abbandonare la maschera che lo ha accompagnato per tutta la carriera e presentarsi davanti al pubblico in tutta la sua “morale” nudità, in tutta la sua realtà di individuo e di corpo: Totò rappresenta anche l’artista tout court, la sua ricerca di “verità” oltre a ogni ruolo predeterminato (la video-animazione Totò nudo, 2005).6

E infine, le diverse forme e immagini di orecchie sparse in tutta l’opera di Perrone potrebbero non solo dimostrare l’ossessione per la raffinata e complessa architettura del padiglione auricolare (come dichiarato dallo stesso artista), ma essere lette come un omaggio all’orecchio più celebre della storia dell’arte: quello che Vincent van Gogh si mutilò volutamente nel dicembre del 1888. Che fosse un sacrificio agli dei dell’arte, il tentativo di attutire una sensibilità troppo acuta, o forse il simbolo della sua unicità d’artista, non è dato sapere.7
Queste metafore della condizione umana sotto le sembianze di folktales erano anche atti di resistenza dell’artista a una modernità globalizzata e performante che, in corrispondenza con i primi anni della sua carriera e alla fase storica successiva alla caduta del muro di Berlino, si diffondeva con crescente pervasività attraverso forme sempre più omogenee e seducenti. Perrone non si opponeva solo alla falsità di quella narrazione e a quella promessa di modernità, ma anche a un’idea – ugualmente falsa – di pensare l’arte come veicolo di una comunicazione senza traumi. La sua resistenza a questa omogeneità espressiva contagiava anche il suo modo di trattare il linguaggio dell’arte, attraverso un duello costante con il medium e le sue possibilità, in cui l’artista si allontanava drasticamente da qualunque suo utilizzo in senso (neo)modernista diffuso in quegli anni.
In questo senso, La terra piatta è già una dichiarazione di poetica dell’artista nei confronti del medium, rappresentata dalla possibilità di Dario (che incarna l’artista, ma forse anche il primo uomo sulla Terra) di usare il materiale in modo immaginativo, amatoriale, “altro” rispetto a quello suggerito dalle convenzioni: regredire per inventare.
Con la profonda curiosità del principiante, con l’incoscienza del neofita, Diego Perrone mette in questione gli strumenti stessi che sceglie di volta in volta di utilizzare. “Diciamo che ogni volta è una ‘piccola invenzione’: cerco di usare dei linguaggi che potenzialmente posso distorcere,8 nel senso che se, per esempio, uso un mezzo digitale, un mezzo come la modellazione 3D, cerco di usarlo un po’ inventandomi un modo di usarlo. A me interessa capire il processo, per cui questo processo lo reinvento un poco per volta: io e le persone con cui lavoro usiamo allora il mezzo digitale come se fosse una sega o un martello […]”.9

Come il giovane protagonista dell’episodio “La campana” del film Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij, che a torto viene creduto depositario del sapere necessario a far suonare le campane, Perrone pretende di poter realizzare un oggetto/opera senza conoscerne la tecnica, e convince gli altri (i suoi collaboratori) a seguirlo in un’impresa guidata unicamente da volontà e immaginazione.10 Forza i limiti dei materiali che utilizza attraverso lunghi ed elaborati processi realizzativi che nascono anche dalla sua inesperienza, e sposta le aspettative verso un certo medium e le sue possibilità espressive.
I risultati sono spesso, appunto, delle “distorsioni” del mezzo utilizzato. Così, per esempio, Vicino a Torino muore un cane vecchio (2003) usa un mezzo digitale non solo per ricreare artificialmente un atto (la morte di un cane) di cui non ha mai fatto esperienza, ma spinge un mezzo “moderno” verso la ricreazione di una qualità pittorica. Più recentemente, i grandi vetri prodotti a partire dal 2013 nascono da una condizione di quasi completa inesperienza di quel materiale che l’artista decide di portare alle possibilità tecniche estreme pur “rimanendo sulla sottile linea del fattibile”.11
Volumi scultorei che sembrano negare la loro stessa tridimensionalità, come il peso – in verità notevole – della loro presenza, i vetri generano “un’ambiguità tra la massa scultorea e l’immagine che è per sua natura bidimensionale”.12 Queste sculture si allontanano drasticamente da ogni compiacimento nell’uso del vetro come materiale modellato dal soffio, malleabile, leggero; piuttosto lo riportano al suo stato di minerale, alla sua sostanza geologica, quasi che l’artista scolpisse direttamente nella roccia o rivelasse l’esistenza di un fossile. Le macchie di colore diffuse sul corpo trasparente della scultura attraverso processi parzialmente casuali non solo creano risultati in buona parte inaspettati: da qualunque parte le si guardino, queste sculture appaiono come dei grumi di colori sospesi a mezz’aria (posti sul piedistallo), dentro cui si celano forme e motivi che si ripetono quasi sempre uguali a se stessi: orecchie, carpe koi, portaerei, trattori.13 Sono forme cui si può vedere attraverso, ma non si sa da che parte guardare; non creano ombre, sono pura luce, come pesantissimi ologrammi del tutto analogici. Come l’artista stesso sostiene, sono soprattutto artefatto, effetto, inganno.14
Questa attenzione all’“effetto” come strumento linguistico non è cosa recente, e attraversa il lavoro di Perrone come un costante desiderio di portare a un livello espressivo “eccessivo” le proprie opere, di evadere i limiti della forma e dell’immaginazione. Già alcune opere dei primi anni Duemila si presentavano come “effetti” prolungati oltre i limiti convenzionali del linguaggio mentre erano, allo stesso tempo, esperimenti sulla loro stessa tenuta, sulla loro capacità di contenere sensazioni, sentimenti, emozioni. La violenza tra bambini nell’animazione digitale I verdi giorni (2000) e quella ancora più atroce tra i due innamorati Angela e Alfonso (2002) mancano di antefatto e giustificazione narrativa: sono climax emotive prive di trama, esasperazioni senza apparente ragione compresse in pochi minuti di azione, come gli ultimi minuti di vita del cane che muore davanti a noi. Una sorta di minimalismo della trama per un massimalismo dell’effetto.

Nato artisticamente con gli esordi di internet e la sempre più facile produzione e trasmissibilità delle immagini, in quei primi anni Duemila Perrone si ribellava al loro uso e consumo veloce e superficiale, al processo di rimozione e anestetizzazione operato dalla modernità attraverso forme diverse di spettacolo. E lo faceva creando immagini e micro-narrazioni che registravano un imbarazzo, ma che ponevano gli spettatori stessi in una simile situazione, in quanto messi a confronto con immagini “oscene” perché “costruite senza nessuna forma di consolazione, perché spogliate di ogni componente superflua, di ogni protezione”.15 Perrone testava così la capacità delle immagini di farsi veicolo di emozione e di verità, quella di una religione della natura, di una fede pagana, fondamentalmente tragica.  

 

De-formare, riformare

“Mi interessa appunto questa deformazione dell’immagine della mamma”.16

  

Quella volontà di fare delle immagini e delle micro-narrazioni il veicolo di una dimensione morale sembra incrinarsi negli anni a seguire. Davanti allo spettacolo apocalittico prodotto dalla Storia (le Torri Gemelle, per esempio), Perrone deve aver messo gradualmente in dubbio l’efficacia dell’arte di produrre immagini altrettanto cariche di verità ed emozione.
L’effetto di distorsione fisica, che è visibile in molte delle sue opere almeno da un decennio a questa parte, sembra quindi essere la conseguenza di una insoddisfazione verso le possibilità comunicative dell’immagine video e fotografica, della loro forza iconica; forse la visualizzazione di un’impossibilità della forma-immagine a condensare così tanta emotività sulla “pelle” comunque bidimensionale dell’opera. Sotto questa pressione, la forma-immagine si farà corpo, presenza spaziale. Diventerà veicolo di un nuovo e più esplicito espressionismo. Se le fotografie dei buchi scavati nel terreno sembrano già segnalare la necessità di una giustificazione etica al fare arte – come se produrre immagini non fosse più sufficiente – questa transizione avviene più chiaramente con le opere successive. Due sculture provano a visualizzare l’articolato processo che tradizionalmente porta alla costruzione di una campana, restituendo l’immagine tridimensionale della sua fossa di fusione. Anche in questo caso l’artista si imbarca, da spericolato neofita, in imprese estremamente ambiziose – per non dire irresponsabili – e realizza le sue prime sculture in misure fuori dall’ordinario e attraverso processi tecnici complessi che scopre via via nel loro farsi. Mentre la prima opera mantiene una forma in qualche modo ancora sintetica, seppur di una organicità “mostruosa” (La fusione della campana, 2005), la seconda è costruita ancora più chiaramente con l’obiettivo di smascherare il processo tecnico che presiede alla realizzazione finale della campana: quella specie di fiore che sembra essere sbocciato al “termine” della scultura ma che appare quasi come un dettaglio irrilevante in relazione all’intero processo (La fusione della campana, 2007). La prospettiva “aerea” (che ribalta di quarantacinque gradi la forma dell’opera) permette la visione di diverse fasi del processo, così che il passaggio da una fase all’altra arriva a evocare un paesaggio, in diretta continuità con I pensatori di buchi, che sono la premessa concettuale di queste opere.17
Con queste due grandi sculture, organismi-meccanismi-mostri che sembrano emersi dalla terra, Perrone ha “scavato” nella forma finale di una campana per portarne alla luce il processo; ha “estratto” da un’immagine la sua creazione, quasi avesse percepito che le storie e le icone costruite fino a quel momento non potessero più sostenere l’alto peso emotivo che ambivano a veicolare, che la loro ripetizione le avrebbe fatto perdere in efficacia.
Se le due “campane” segnalano l’inizio di un rapporto conflittuale con l’immagine video e fotografica, un’opera di poco successiva mette in scena un’altra relazione tra forma bidimensionale e tridimensionale e, ancora una volta, la consapevole ibridazione tra linguaggi che percorre il lavoro di Perrone. Il video Il primo papà gira in tondo con la sua ombra, la mamma piega il suo corpo cercando la forma, il secondo papà batte i pugni per terra (2006) riesuma la tecnica del “passo uno”, tipica degli esordi del cinema d’animazione, per ricreare l’atmosfera di un film espressionista, in cui una famiglia di strane creature si muove su un piano inclinato. Se l’opera parla ancora una volta – seppur a un livello di astrazione “mostruosa” – di legami familiari e affettivi più o meno disfunzionali, è ugualmente interessante soffermarsi sull’attenzione che Perrone dimostra nuovamente per la dimensione dell’artificio, della messa in scena. La continuità con cui l’artista ha usato delle rampe per presentare le sue opere nelle due mostre di Bordeaux e di Bologna,18 e ha adottato un simile piano inclinato per far muovere i personaggi della video-animazione Il primo papà, sembra rivelare il desiderio di creare uno spazio scenico all’interno del contesto espositivo, un luogo dove i corpi dei protagonisti del video siano esposti, esibiti. Come avveniva anche per gli animali ripresi in alcuni video degli esordi o per lo stesso amico Dario e la sua capanna, ancora una volta Perrone osserva dei comportamenti in stato di “cattività” come strumento di comunicazione in una condizione di imbarazzo.
D’altro canto, se le “campane” vogliono indagare l’oggetto che viene rappresentato, allo stesso tempo tendono anche a impressionare, spaventare, persuadere. Le diverse forme di distorsione adottate da Perrone andranno quindi intese come insofferenza per le limitazioni dei medium e delle forme, come tentativo di forzare fisicamente i limiti del pensiero, per creare effetti artificiosi a fini retorici.

Da questa fase del suo lavoro, Perrone sembra sempre più interessato ad adottare alcuni espedienti comunicativi e formali tipici dell’arte barocca e tradurli per le sue esigenze espressive. Così, le distorsioni delle plastiche e delle immagini delle sculture tra il 2007 e 2008, le viste di scorcio nei disegni a biro rossa su carta, l’ibridazione tra umano e animale dei più recenti caschi di cera (2018) sono solo alcune dimostrazioni di quel rapporto con l’artificio, l’effetto e l’espressione tipici del Barocco e che caratterizzerà sempre di più il suo lavoro.  
Perrone potrebbe sottoscrivere quello che Giulio Carlo Argan scrive su quel periodo artistico: “L’arte è il prodotto dell’immaginazione […]. L’immaginazione è superamento del limite: senza immaginazione tutto è piccolo, chiuso, fermo, incolore”.19
Da questo momento, che retrospettivamente può essere visto come un sacrificio necessario alle illusioni comunicative e sintetiche dell’immagine prodotta meccanicamente, Perrone interrompe l’uso di video e fotografia, per dedicarsi a linguaggi come scultura e disegno, dove l’intervento manuale è più evidente e le immagini e i materiali sono sottoposti a una distorsione, a una forzatura in senso più direttamente fisico e formale.
Le sculture realizzate tra il 2007 e 2008 sono costruite su un rapporto più diretto con la materia, introducendo una nuova violenza sui materiali che si trasmette alle immagini che vi sono impresse. Perrone sembra tradurre questa incertezza sulle possibilità dell’immagine attraverso l’uso di nuove tecniche di stampa e riproduzione che si stavano allora diffondendo. Diventata una materia sempre più malleabile e facilmente trasportabile grazie alla sua digitalizzazione, l’immagine può acquisire una maggiore qualità scultorea e, allo stesso tempo, modificarsi attraverso la sua circolazione e dispersione in una varietà di medium diversi.
Perrone percorre questa direzione prelevando da internet alcune immagini libere da copyright per stamparle su plastiche bianche che vengono poi piegate e supportate da strutture metalliche. Su queste superfici violentemente distorte, l’artista lascia segni tracciati rapidamente a penna biro rossa: mentre restituisce un senso di velocità e manualità a un processo che era stato anche meccanico (un altro artificio retorico?), questo segno alza il grado di espressività dell’opera. Come una grande elica appuntita (La mamma di Boccioni in ambulanza, 2007), o come frecce puntate una verso l’altra, quasi a restituire un momento di estrema tensione (Senza titolo (Lupi), 2007), o ancora come grandi insetti metallici, creature emerse da qualche possibile fiction cyberpunk che minacciosamente invadono lo spazio espositivo (Senza titolo (Mamuthones), 2007 e 2008), queste sculture sembrano voler trattare fisicamente le immagini e, allo stesso tempo, dare “corpo” ai loro soggetti. D’altro canto, la distorsione operata sui materiali porta a risultati imprevedibili che risucchiano l’immagine nel gorgo materico della superficie, dove sembra perdere ogni sua indipendenza, per essere trasformata in decorazione, accidente, effetto; “pelle” di una forma scultorea. Con un atteggiamento iconoclasta, di violenza espressionista, Perrone sembra manifestare ancora più direttamente la crisi dell’immagine e delle sue possibilità comunicative che aveva già iniziato a segnalare con le “campane” di qualche anno prima.
Questa serie di sculture appare tra gli ultimi, conflittuali tentativi di Perrone di tenere in vita una qualche forma di relazione con l’immagine prodotta meccanicamente. Dagli anni successivi, l’artista produrrà le sue opere attraverso interventi sempre più manuali, seppur occasionalmente in dialogo con esperti di diverse tecniche (come nel caso delle sculture di vetro). Perrone sembra interpretare qui una nuova attenzione degli artisti contemporanei all’uso di tecniche e materiali che parevano ormai desueti (pittura, bronzo, marmo, per esempio), e un rinnovato gusto per la “mano” dell’artista e per la sua tecnica, da leggere anche come reazione alle infinite possibilità dell’outsourcing e della post-produzione, come alle nuove richieste del mercato successive alla crisi economica globale del 2008.
In questo nuovo contesto artistico, sociale ed economico, Perrone non si abbandonerà però a un nostalgico “Ritorno all’ordine”. Anche quando riscoprirà la manualità o l’uso di materiali tradizionali, non smetterà di interrogare e forzare la natura del linguaggio di volta in volta adottato. Così i primi disegni (2009) sono in verità il prodotto di interventi manuali su immagini fotografiche, creature ibride che mantengono un forte dialogo con la scultura. Da qui matureranno i disegni a biro rossa su carta (2011), prime espressioni di una visione di pura immaginazione che si concretizza attraverso un processo totalmente manuale. Perrone opera qui una distorsione ancora più evidente, attraverso la quale il viso dell’artista è modificato e dilatato come passasse attraverso un effetto di morfing digitale. Con un paziente processo manuale, l’artista sembra voler trasmettere la “liquidità” tipica della materia digitale, in un ennesimo cortocircuito ossimorico tra linguaggi.

L’immaginario “fantastico” che Perrone mette in scena attraverso i disegni e i vetri nasce, lo abbiamo visto, dalla rappresentazione di se stesso. In questa parata di autoritratti “di scorcio”, fanno eccezione due nuclei di lavori che “campionano” due visi e due opere di un altro artista: lo scultore italiano Adolfo Wildt (1868-1931). Al di là di ogni identificazione con la distorsione “mostruosa” di due sculture di Wildt, con la loro natura ibrida (Vittoria, 1918-19) e grottesca (Maschera dell’idiota, 1918), tipiche dell’immaginario di Perrone, l’artista sembra anche qui interessato a provocare una dialettica tra le possibilità linguistiche di due mezzi espressivi. La prima citazione di Perrone (Vittoria (Adolfo Wildt), 2013) usa un materiale moderno e sintetico come il PVC per riprodurre la levigatezza estrema del marmo trattato da Wildt e definire un ennesimo ritratto “stupefatto”. Il secondo prelievo (Idiot’s Mask (Adolfo Wildt), 2013) trasporta il viso scolpito in marmo, ridipingendolo ad aerografo su un altro materiale, ma lasciando in evidenza i flash della macchina fotografica usata per catturare questa immagine nella vetrina in cui era esposta, creando un’ennesima tensione tra forma tridimensionale e bidimensionale. D’altro canto, la stessa tecnica dell’aerografo riporta immediatamente alle decorazioni di automobili e motociclette, e all’uso a effetto che ne fanno “tribù” culturali definite. Ancora una volta Perrone sfuma i confini tra cultura alta e bassa, usando un’opera del passato come possibile icona pop, maschera di una italianità grottesca.
D’altro canto, queste serie di opere, come i vetri immediatamente successivi, dimostrano anche l’attenzione per una serie di riferimenti artistici dei primi decenni del Novecento italiano, che Perrone percorre in questo ultimo decennio.20 Pur nella diversità degli artisti con cui decide di dialogare (Medardo Rosso, Adolfo Wildt, Mario Sironi, per esempio), quello che accomuna le loro opere – e ciò con cui sembra identificarsi Perrone – non è solo l’abilità nel ritrarre un’umanità sofferente, un’espressività estrema attraverso cui trasmettere il peso delle loro esistenze: è anche la capacità di farlo attraverso una sperimentazione linguistica e una tecnica che non solo mette spesso in dialogo scultura e pittura (si pensi agli estremi di Rosso, scultore “pittorico”, e Sironi, pittore “scultoreo”), ma è strumento con cui l’artista crea artificio, effetto, seduzione.

La lunga parata di personaggi, ritratti, maschere che percorre praticamente tutta la carriera di Perrone, a partire dal suo autoritratto con/come animale, si conclude per ora con una nuova serie di sculture modellate in cera. L’oggettualità di una forma che rimanda a un casco per motociclette viene associata a prelievi dal mondo naturale e animale (di ananas, tartarughe, ricci di mare) a occupare la posizione degli occhi, generando creature ibride e nuovamente mostruose. Come dei visi colti in un’espressione di forzato stupore o emozione, con bocche e orecchie spalancate al mondo, queste maschere sembrano delle emoticon prodotte da una civiltà arcaica. Ennesimo cortocircuito tra modernità iconografica e arcaicità formale, queste opere danno ancora una volta evidenza fisica a un’immagine e a un’emozione. D’altronde, già nell’etimologia di “Emoticon” (emozione+icona) si fondono due obiettivi verso cui, come abbiamo visto, si è mossa buona parte del lavoro di Perrone fino a oggi: la trasmissione di un’emozione attraverso le immagini. Se i re sorridevano con discrezione, i manga arrossivano con pudore, i due innamorati si mutilavano un organo sensoriale per limitare il loro sentimento, qui l’emozione è quella veicolata sinteticamente dalla comunicazione digitale. Se il passaggio dall’uso del video e della fotografia alla scultura segnalava una certa sfiducia nelle capacità dell’immagine bidimensionale, queste opere sembrano tradurre la necessità, tipica della realtà digitale, di una comunicazione sempre più semplificata, sintetica, “primitiva”. Questi visi dalle espressioni deformate, eccessive, grottesche sono le ultime creature stupefatte di una parata durata venticinque anni. Sono l’ennesima distorsione che attraversa il pensiero e la forma del lavoro di Perrone, l’ultimo artificio per dire ancora una volta la verità.




  1. George-Albert Aurier su van Gogh, in Vincent van Gogh, Lettere a Theo, Ugo Guanda Editore, Parma 1984, p. 366.
  2. Luca Cerizza, “Troppo strano per morire. Movimento in tre parti e comunque incompleto su Diego Perrone”, in La mamma di Boccioni in ambulanza e la fusione della campana, catalogo della mostra (Bordeaux: CAPC, 2007 / Bologna: MAMbo, 2007- 08), Skira, Milano 2007.
  3. http://www.treccani.it/vocabolario/distorsione
  4. Diego Perrone, “Tre cose in fila in salita”, conversazione con Charlotte Laubard e Andrea Viliani, in La mamma di Boccioni in ambulanza e la fusione della campana, p. 21.
  5. Cerizza, “Troppo strano per morire”, p. 75.
  6. Un’altra opera di poco precedente ma per molti aspetti simile (la video-animazione Vicino a Torino muore un cane vecchio, 2003) doveva originariamente ritrarre la morte di un vecchio artista e non quella di un cane, come dichiarato dallo stesso Perrone (in questa pubblicazione a p. 92).
  7. Florence Derieux ha notato la possibile relazione con Vincent van Gogh: “In conversazione con Diego Perrone”, in Diego Perrone. Sculture di vetro/Glass Sculptures, catalogo della mostra Sussi e Biribissi (Bari: Spazio Murat, 2017) Comune di Bari, Bari 2017, s.p.
  8. Corsivo mio.
  9. Perrone, “Tre cose in fila in salita”, p. 18-21.
  10. Per ammissione dell’artista, quell’episodio è alla base della serie fotografica I pensatori di buchi (2002) e delle sculture La fusione della campana (2005 e 2007). D’altronde, l’intero film di Tarkovskij è una profonda riflessione sulle ragioni etiche, politiche e sociali del fare arte. Il fatto che in una delle prime inquadrature dell’episodio il giovane protagonista Boris sia ripreso di fianco a una gallina rende ancora più plausibile l’identificazione con Perrone.
  11. Diego Perrone intervistato da Charlotte Laubard, “Diego Perrone: Self Portraits and Herbivorous Carnivorous”, in moussemagazine.it, http://moussemagazine.it/diego-perrone-selfportraits-herbivorous-carnivorous-casey-kaplan-new-yorkmassimo-de-carlo-milan-2017/ (in questa pubblicazione a p. 196).
  12. Ibid.
  13. Ci si potrebbe spingere a dire che alcuni motivi iconografici che ritornano con insistenza nel lavoro di Perrone, e poi ancora e con più continuità nelle ultime serie di opere come i disegni e i vetri, siano usati dall’artista alla stessa stregua in cui Paul Cézanne usava le mele e le pere, o Giorgio Morandi i barattoli e le bottiglie: come strumenti di un’esperienza/esperimento linguistico, più che per il loro valore contenutistico. Questa considerazione si riconnette alle premesse e alla linea interpretativa di questo testo. D’altro canto, la stessa ripetizione di certi motivi iconografici potrebbe essere letta come prodotto di una deriva psicotica. Il filosofo Karl Jaspers ha notato come, a seguito della malattia, nell’opera di Vincent van Gogh aumentino i manierismi (“per esempio i numerosi quadri di cipressi con il loro ricco e infinito movimento”). Vincent van Gogh, Lettere a Theo, p. 23.
  14. D’altronde, la distorsione è proprio questo. Nel linguaggio musicale, nella musica elettronica come nel rock, il distorsore è uno dei possibili apparecchi chiamati “effetti” che vengono usati per modificare il segnale che proviene dallo strumento. è appunto un “effetto” che serve a dare qualità diversa al suono dello strumento o della voce.
  15. Cerizza, “Troppo strano per morire”, p. 73.
  16. Perrone, “Tre cose in fila in salita”, p. 27.
  17. Alcuni anni dopo la scultura Pendio piovoso frusta la lingua (2010) sarà un altro e ancora più diretto tentativo di dare forma scultorea, “mostruosa”, all’esperienza di un paesaggio.
  18. Vedi nota 2.
  19. Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana, vol. III, Sansoni, Firenze 1968, p. 258.
  20. Questo avviene in perfetta consonanza con una più diffusa rilettura di alcuni momenti della storiografia artistica italiana novecentesca, soprattutto rispetto al tema della comunicazione dell’opera attraverso i mezzi tecnici di riproduzione. Si pensi, ad esempio, al saggio di Paola Mola, Rosso. La forma instabile (Skira, Milano 2007) sull’uso della fotografia da parte dello scultore.