Pino Pascali
(Bari 1935 - Roma 1968)

La Gravida o Maternità, 1964 
tecnica mista

Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali - Collezione Arte Contemporanea  MACRO

Contenuti speciali

Discorsi. Carla Lonzi e Pino Pascali
di Carla Lonzi

Pubblicato per la prima volta in Marcatrè, Lerici, Milano, luglio 1967, nn. 30/31/32/33, pag. 239.

  

Io cerco di fare ciò che amo fare, alla fine è l’unico sistema che mi funzioni.
Non credo che uno scultore faccia un lavoro faticoso: egli gioca, anche il pittore gioca; come tutti coloro che fanno ciò che vogliono. Il gioco non è solamente appannaggio dei bambini. Tutto è gioco, non è d’accordo?
Ci sono persone che lavorano... è che i giochi dell’infanzia si trasformano in giochi dell’adolescenza, poi i giochi dell’adolescenza diventano giochi dell’età adulta. Ma sono pur sempre giochi. In un dato momento qualcuno è in ufficio: se il lavoro è poco interessante, egli avrà voglia di una macchina potente per andare a farsi un giro. Proprio perché costui svolge un lavoro che non lo interessa. Ma se gli piace, questo lavoro è per lui un gioco, ed egli vi si dedica completamente. Con tutto questo non si vuole parlare di gioco in senso di “puro divertimento” (è un’altra cosa!), bensì inteso come attività normale dell’uomo. E il gioco, anche per i bambini, è una cosa seria, è un modo per conoscere. I giochi dei bambini sono veramente fatti per permettere loro di sperimentare e scoprire le cose, per conoscere e nello stesso tempo superarle.
Ma che cosa si intende per bambino? Qualunque sia la loro età, gli uomini possono restare “bambini” fino alla fine della loro vita. Evidentemente se qualcuno si batte la testa con un cucchiaio è perché è un cretino! Ma se questi riesce a vivere come vuole, per esempio come i ragazzini felici di andare a scuola, allora egli gioca...
Sì, io amo il mare, la pesca subacquea, futilità del genere... amo gli scogli circondati dal mare: io sono nato in riva al mare, ci ho giocato da bambino... amo gli animali, in quanto mi appaiono come degli intrusi, degli esseri che non appartengono alla nostra specie, che possono spostarsi. Ce ne sono in città, in campagna, si tenta di conoscerli. Poi si conclude “bene, bene” e si ritorna indietro. Ma guardare un cavallo procedere nella strada, o vedere un albero che cresce su un metro quadrato di marciapiede, io non so proprio dire che effetto mi faccia tutto ciò. Io lo vedo, lui, l’albero, e non fa solamente parte dell’essenza “albero”; io ci sono affezionato, perbacco! Ma per me un animale è una realtà del tutto diversa. È già un fenomeno straordinario veder passare delle pecore vicino alle case, o vicino ad un uomo. Si brucia una tappa, la pecora non fa parte di ciò che è organizzato, si profila un’altra cosa.
È molto più strano percepire un cavallo piuttosto che vedere una macchina, o un missile lanciato a 7000 Km all’ora... mi spiego?
Come si può ben capire il mio universo interiore, il mio mondo immaginario sono stati decisamente segnati dai romanzi d’avventura piuttosto che da tutti i libri molto intelligenti che ho potuto leggere dopo. Questi ultimi mi sono serviti per capire, per essere efficace. È stato come ritornare per una seconda volta a scuola. E, del resto, ho letto poco, dopo. Ad un certo punto, ho letto tutto insieme, come non bisognerebbe leggere; di colpo, adesso, non riesco più a concentrarmi su un libro, preferisco guardare delle immagini, che mi offrono un altro tipo di apertura. Certo i ragionamenti ben costruiti, tutto ciò che riguarda la realtà organizzata, il mondo mentale, tutto questo mi va bene, è un aiuto, sì, ma mi annoia terribilmente. E se seguissi all’infinito questo tipo di ragionamento, questo mi distruggerebbe completamente. Esattamente come un punto che gira senza fine, su un foglio di carta. Tutto il foglio potrebbe essere riempito, senza che ne esca una qualche immagine significativa. Certo tutto questo mi aiuta a capire. Si tratta di un lungo tragitto, e ciò mi permette di creare degli incroci, ma in definitiva, per me, il risultato non è che una serie di punti, una linea. Di questo stesso pezzo di carta, alcuni ne parleranno come di una specie di planimetria, o immagineranno una quantità di storie, ma non è il mio modo di procedere; in questo ambito io non sono incluso? Che cosa vorrei? Essere il più naturale possibile, ma non naturale in un certo modo, e sono incapace di spiegare che cosa bisogna intendere per naturale.
Natura? È una parola che fa paura. Per esempio, se si guarda questo rinoceronte, è certamente un rinoceronte, è una forma che ho cercato senza cercare; io non l’ho fatto perché sia strutturato secondo la forma di un rinoceronte, ma non ho tuttavia disdegnato altri fattori e di questa forma ho salvato ciò che avrebbe potuto esserlo. Può darsi che in questa realizzazione ci siano delle soluzioni non mie, che sono di altri scultori, che rivelano altri modi di pensare.
Così la struttura di questa specie di grosso serpente potrebbe essere un’opera di Brancusi. Il nome mi è venuto d’istinto perché Brancusi fa parte di una categoria che noi definiamo vicino alla natura, che cosa ne pensa? Quando qualcuno vede un animale, per esempio un cavallo - questo famoso cavallo che ho in testa, che non ho mai scolpito, non so perché- quando qualcuno vede un cavallo, un uccello, un pesce, immediatamente pensa a Brancusi: è ovvio! In tutto ciò non mi interessa che il punto di partenza di questa forma sia Brancusi. Un Brancusi esiste già, c’è già la scultura, può darsi che per me fosse soltanto un modo di risolvere il mio problema.
Certo, io amo gli animali ma ciò non vuol dire che io voglia ancora fare degli animali: è un soggetto, un’immagine, un contesto prestabilito, sono parole già impresse che mi affascinano sempre, allora le accetto e le scelgo come punti di partenza. Ciò che faccio non è una ricerca di forma. È un modo di verificare, partendo da un altro punto di vista, ciò che altri hanno già fatto. Una modalità di verificare il mio sistema comparandolo agli altri.
Non è che io voglia essere plastico come Brancusi, ma amo vedere, o piuttosto, semplicemente, amo occupare uno spazio con questi pezzi e, in definitiva, non so veramente se ho voglia di rivederli, se mi piacciono. Sì, in definitiva, non penso di amarli... oh, non sono sentimentale: il processo, una volta avviato, non mi interessa più. Può essere che ciò che mi interessa sia di osservare la reazione degli altri, lo spazio spettacolare che si crea: la gente guarda, pone delle domande, sulla base di qualcosa che in definitiva non esiste, perché per me si tratta di sedicenti sculture, e lo spazio della farsa che è l’esposizione mi affascina. Per me questi pezzi muoiono; nel momento in cui allestisco l’esposizione, essi mi sono quasi del tutto estranei. In definitiva, è agli altri che essi provocano certe reazioni e allora per un po’ ho l’impressione di essere uno scultore sebbene io non mi consideri tale, è l’impressione che ho di me stesso. Ciò può essere piuttosto serio... è sempre questo che mi diverte. All’epoca in cui facevo i cannoni dicevo: “che bello esporre un cannone in uno spazio riservato agli scultori” e così riuscire a piazzarlo in un luogo consacrato dove tutto è artificio.
Per me questi oggetti non hanno altro scopo che in loro stessi. Non servono a nessuno. Non penso che qualcuno possa metterseli in casa e non voglio che qualcuno li guardi a casa sua, è comprensibile no? E pertanto qualche volta ci penso e vorrei vederli, che so, in un giardino, in una grande sala, in un museo, ma è un’idea che mi viene per reazione infantile, senza valore positivo: il desiderio di essere scultore è di trovarmi in un giardino accudito in un modo o in un altro, in uno spazio molto mio. Di fatto non ne so niente: queste sculture non sono magiche! sono degli oggetti piazzati là, e, siccome voglio che li si guardi, a volte li faccio enormi. certo, è ridicolo! È esattamente come vestirsi di giallo, anche questo può apparire completamente idiota, perché no? Ciò che è essenziale, è che questi oggetti mi diano coraggio, essi sono la prova che, in fin dei conti, io esisto! Anche se si tratta di una sorta di finzione, a partire di là, io riesco a provare a me stesso che esisto, proprio perché ci credo; mi spiego? Può darsi che non sia altro che un alibi... ma sono sicuro di una cosa, che facendo questo lavoro io riesco ad esistere, riesco a guardarmi nello specchio. Ma guardarsi nello specchio non è poi così facile: ci si guarda e si vede qualcuno che mai... è come la storia del cavallo che si vede nella strada, ci si dice: “Guarda! Sono io”. Ti accorgi che abitualmente vivi in un mondo fatto di immagini mentali; un collage di immagini, di cose completamente estranee al tuo aspetto esteriore; bruscamente, come attraverso il buco di una serratura, tu ti vedi come ti vedono gli altri. È molto impressionante vedersi così dall’esterno. Un pò come vedersi per la prima volta. È che non si ha coscienza di essere una certa forma, un certo oggetto, di avere, attraverso il proprio fisico, una certa presenza. Che cosa sono, i capelli, le basette, perché no? I peli del naso; e, se la si porta, ci si guarda la barba si vede che si è ben fatti, si nota come tutti che si ha un bel portamento. Si ha un bel dire, l’immagine vista non è interiorizzata, per un sacco di ragioni. Vedere la propria immagine è come presentare il fuori al dentro. Come quando si vede una macchina e un cavallo, due cose... Oh scusi! Qualche volta quando parlo, dico delle cose alle quali non avevo mai pensato. Allo stesso modo, quando si lavora si decide di fare qualche cosa soltanto con i mezzi di cui si dispone e si aboliscono altre possibilità che erano in germe nell’idea di partenza. Questo mi piace, partire dal materiale, che impone i propri limiti. Scegliere un tipo di materiale equivale a proiettare le proprie possibilità entro limiti ben precisi, un certo tipo di materiale non permette di realizzare qualunque cosa. Si può fare una cosa sola e quest’unica cosa è un’idea di sè. Ma sciupare tutta una vita per non raggiungerla, per non finire altrove, è stupido.
Amo questa ricchezza di possibilità, mi restituisce la mia presenza al mondo, mi permette di non essere angosciato da un’immagine di me stesso che mi sono fissato in precedenza. Mi guardo ancora una volta allo specchio, vedo la mia immagine -strana o no- una nuova immagine inutile: “sì, sono io, Pino Pascali; porto le basette un centimetro sotto l’orecchio; i baffi? può essere che li porterò sino alla fine dei miei giorni”. Oggi porto i baffi, domani porterò la barba, può darsi che dopodomani mi farò crescere i capelli, a meno che non li tagli corti. È facendo queste cose che ho coscienza del tempo che passa. È veramente ciò che penso. Approfondisco, approfondisco, un modo di ingannare il mio mondo.
Ciò che è più importante è procedere verso ciò che turba -non precisamente che turba- verso il nuovo. A mio avviso, la miglior cosa, è quella di ingannarsi. L’espressione può stupire, sì, ingannarsi, per capirsi. Io non mi inganno vera­mente, mi assumo la responsabilità dei miei errori! Come dire? Per me non sono degli errori. Evidentemente trent’anni fa chi era fascista si è ingannato? o forse trent’anni fa il suo carattere e la sua morale non gli permettevano che di essere fascista? Cambiare, non vuol dire rinnegare il passato: non si cancella niente; si è veramente diversi da quello che si è stati prima; la presenza cambia sul filo della storia. Non riesco a capire per esempio come un pittore di 90 anni dipinga come quando ne aveva 20. Sarebbe un modo di restare ancorati alla gioventù, a un’epoca, a una storia che sono scomparse.
Dunque, d’accordo per un’evoluzione -un’evoluzione, per modo di dire poichè potrebbe trattarsi anche di una regressione- nella misura in cui l’evoluzione esprime un passo in avanti nella conoscenza. È una mancanza di interesse per l’esistenza, un modo di presentarsi un’altra volta davanti allo specchio, mi spiego? Davanti allo specchio, qualcuno dice: “Ecco io sono così” e va via. Ritorna e dice : “Ecco io sono cosà”.
Non voglio fare della commedia a questo proposito: in fondo, gli attori hanno un bel cambiare il costume, hanno una maniera tutta loro di recitare e recitano sempre nello stesso modo. Bene, al contrario la personalità di ciascuno esiste, si costruisce -e si decostruisce- secondo il nostro desi­derio di annientamento, dunque, di ricostruzione incessante.
Non è il caso di annientarsi totalmente ma di sbarazzarsi di aspetti già esplorati, divenuti inutili. In fondo non è nient’altro che la tecnica alla quale sono ricorsi gli industriali: rinnegano il passato e creano il nuovo. In un’economia di pensiero, è un modo intelligente di procedere: autodistruggersi e ricrearsi diversamente, in modo da non essere mai uguali.
Un rifiuto ad essere identici perché non lo si vuole essere, perché no! L’importante è far sempre cose nuove, non nuove per gli altri, ma per se stessi.
Per copiare il padre, il bambino si mette una pistola nella cintura, si mette un’uniforme perché suo padre ne porta una. Ma se si fosse vestito esattamente come suo padre, con un’uniforme in miniatura, non sarebbe stato divertente; il piccolo prende un bastone come se fosse una pistola, mette una giacca di carta, un képi di cartone. Ed è bello. Qualche volta imitare suo padre diventa alla fine fare ciò che io faccio con i cavalli. io riproduco un cavallo ma, siccome non posso rivestirlo d’un pelo lucido di sudore, non posso mostrare le mosche che gli ronzano attorno nè la muscolatura arrotondata sempre in movimento, io utilizzo del materiale semplice da usare, metto della tela su costole di legno. Non metto la tela perché assomigli alla pelle. Ciò che creo è un’apparenza esteriore, non interiore. Un bel giorno qualcuno mette una cravatta d’un colore che gli piace. Che lui la indossi non gli impedisce che possa evocargli un’immagine. È ovvio! La cravatta è la trasfigurazione dell’immagine che aveva in testa. L’immagine che diventa realtà si trasfigura, con un’espressione differente. È proprio l’immagine che cambia volto. Uno compra una casa, l’ammobilia, niente come il modo di arredarla rivela chi egli è. Uno si crea un angolo che fa pensare ai dipinti di Caravaggio, un altro si fa costruire una casa che assomiglia ad un monastero. Altri ordinano pezzi e oggetti perché siano adatti al ritmo della vita quotidiana.
Infine alcuni fanno la loro casa esattamente come se costruissero la loro personalità, e lo spazio creato è fantastico. C’è sempre proiezione: quando si vive in una società alla quale ci si adatta, è sempre così. Ognuno ha intorno a sé un mondo ben preciso. Per esempio per fare una scultura, alcuni negri utilizzano una pelle di zebra, un pezzo di legno; si servono di quanto hanno intorno. È la stessa cosa per noi... ma la difficoltà sta nel mettere insieme i diversi elementi; facendolo ciascuno determina il proprio spazio e per contraccolpo la propria immagine. È in questo senso che i materiali mi interessano... se li si conoscesse tutti! Ma certamente non la plastica! La plastica? Non posso utilizzarla, è un mezzo che mi è estraneo. È come se fossi un selvaggio... non sono un selvaggio; sono un italiano e vivo a Roma, ma l’uso della plastica, per me, corrisponde a una dimensione tutta partico­lare. Se fosse come andare in un negozio a comprare un foglio di carta allora perché no, si compra della plastica e ci si mette a lavorare. Ma le cose non stanno così. L’universo, è come un gigantesco meccano; ognuno ha a sua disposizione un certo numero di pezzi. Ma ecco, tutti i pezzi non sono identici. Man mano che li si incastra si può creare una combinazione possibile invece che un’altra, si scarta perché essa tocca un territorio che ci è estraneo. Per esempio, se io tendo una tela su un quadro mettendone in rilievo le cuciture, dei buchi, io entro nel territorio di Burri. Ma se al posto della tela di juta lei trova un materiale “x” e che questo materiale “x” corrisponde semplicemente ad un’idea della natura - un’idea che lei condivide, che appartiene al suo mondo, alla sua epoca- e che infine questo materiale è strutturato secondo le caratteristiche che hanno portato a sceglierlo, significa che appartiene esattamente al suo spazio personale. L’errore di alcuni è di giocare agli ultra moderni attraverso la scelta della plastica, con uno spazio mentale che non è quello di Burri, ma che in ogni modo appartiene ad uno spazio già frequentato. Non è che una forma di modernismo. Al contrario quando è un americano che usa la plastica, lo spazio creato è nuovo. L’italiano che usa la plastica come materiale... a meno che viva in una regione dove non si fabbrica altro che plastica, è... ma non voglio entrare in polemica.
Noi siamo nati qui, abbiamo ereditato queste immagini. Per trionfare su di esse, bisogna guardarle freddamente, per quello che sono, in modo tale da verificare quali possibilità hanno ancora di esistere.
Se questa possibilità è la finzione, riconosciamo la finzione; se sono delle cose superate, allora esse non ci appartengono più.
Nessuno le può più prendere seriamente, nessuno può più credere a dei problemi, che so io, di civiltà mediterranea... Concretamente per sentire che sono uno scultore, io non posso che fare delle false-sculture (FINTA SCULTURA). E ancora arrivo al dominio delle falsificazioni. Niente di grave, esiste una sorta di invenzione di civiltà fino al punto in cui la gente cerca veramente, può anche essere che essi non cerchino affatto, è difficile da dire.
In definitiva ciò che faccio si trova sempre fuori, mai dentro. Anche se si tratta dei cannoni, era importante per me che apparissero come dei veri cannoni. Avevo una tinta verde per nascondere le imperfezioni. Era un cannone, poco importa che fosse di legno o di ferro. Poco importa come li ho fatti, per me l’essenziale è che sembrino dei cannoni veri. Questi pezzi qui? È importante che appaiano come sculture.
Non scelgo di interessarmi all’interiore o alla parte superficiale, l’importante è lo strato leggero che si forma tutto intorno. È l’aspetto di finzione che fa scattare automaticamente l’identificazione con quella o quell’altra immagine, una certa parola del dizionario: un cannone, una scultura, un Brancusi. È esattamente così per certe opere di Lichtenstein.
Egli ridipinge una tela di Picasso come se fosse un fumetto.
Io faccio a meno di creare delle sculture, ma non voglio che esse divengano le sculture che parrebbero essere! Ciò che mi auguro è che esse non abbiano peso, che non siano ciò che sono, senza alcun significato preciso, le ho fatte così, punto! Così come io sono ciò che sono, non è forse della tela tesa sulle ossa, che assomigliano vagamente a delle sculture, ad immagini che vivono in noi.
Sì, si parla di spettacolo a proposito di ciò che faccio, ma non penso che sia un’intuizione giusta: presento un’esposizione, il mio gesto è lo stesso di quello di altri scultori quando espongono. Quando un’artista fa un’esposizione obbligatoriamente monta uno spettacolo, ma non è come al teatro: gli scultori non sono attori e neanche degli scenografi. Il teatro è teatro perché in scena c’è un uomo in carne e ossa; se non c’è, non è teatro, diventa un’altra cosa. Tutt’al più, se qualcuno vuole fare un confronto in questo settore (ma può essere pericoloso) bisognerebbe dire che in questo caso, lo spettatore è l’attore. Da parte mia provo un piacere quasi sadico, in qualche modo divento cattivo quando vedo lo spettatore di una esposizione. Sì, si può parlare di spettacolo se lo s’intende unicamente per l’organizzazione che gli uomini hanno inventato: gallerie, esposizioni. È di sicuro uno spettacolo, un evento socio-politico, ciò che permette ad un artista d’inserirsi nella società, che gli fornisce una giustificazione, breve, unico modo alla sua portata per stare nella società. Senza questo spazio il pittore odierno non esiste più; non esiste che un artigiano, un operaio specializzato. La galleria è un luogo astratto, un posto che permette di prendere la parola. Diciamo una sorta di pulpito, con tutto ciò che questa parola ambigua implica, di connotazione cristiana: un uomo dice la sua messa, qualunque cosa! E ci sono delle specie di ex-voto appesi al muro. Mi spiego? In una galleria, i pezzi esposti si trasformano in ex-voto sospesi, e tutto ciò funziona, sino a quando l’artista ha un’intenzione di questo genere, quando ci crede e crea un legame esistenziale, se no, non è che una scena teatrale. Quando un direttore di galleria accetta le opere, quando l’artista stesso le installa, esse assumono un’altra dimensione. Ciò può essere un aspetto negativo, ma in tutti modi è un fenomeno inevitabile.
Le gallerie diventano delle specie di cimiteri: le opere sono veramente delle tombe, ma anche simulacro, altare, Blue-bell. Le opere si trasformano in oggetti da guardare, essendo, questi, oggetti che permettono un percorso nello spazio della galleria.
Se qualcuno mi dice: “Il suo quadro mi piace”, ciò che provo è molto bello ma anche molto negativo. Se mi dice: “Quello non mi piace” io mi sento ferito nella mia vanità; soprattutto se è stato detto per offendermi; niente di più. Ma quando qualcuno mi dice: “Com’è bello!”, io rispondo: “Sì caro amico, è bello, molto bello”. Ma le assicuro che in quel preciso momento, è come un non-sens, tutto ciò non vuol dire niente; tutto questo non mi fa girare la testa almeno come gira il mondo, non vedo che l’aspetto negativo, l’osservazione disinteressata di un “mi hai visto” con il fiore all’occhiello. Nient’altro, perché per me non è una questione di bellezza, i quadri non sono nè belli nè brutti.
Per me i veri spettatori, sono i pittori, gli scultori. Gli altri sono estranei a ciò che capita. La persona che frequenta le gallerie lo fa perché è di moda o perché vuol mettere “qualche cosa” su una sedia o su un divano. Oppure qualcuno vuole ostentare la sua stravaganza, a meno che non voglia apparire serio seguendo la tradizione. Niente di più. Ma quando un visitatore mi dice: “È straordinario, questo quadro mi fa pensare a...”, questo è molto interessante per me, c’è anche di che ridere, ma veramente mi possono dire di queste cose.
Io non accetto assolutamente un giudizio estetico. Ammettiamo che uno spettatore arrivi a dire: “Sei stato completamente idiota a mettere un tale colore in tal’altro posto, non vedi che rovina tutto?”.
Automaticamente io sono invogliato a verificare se c’è veramente incompatibilità.
Mi si dice per esempio: “Questa forma assomiglia ad un fallo!, per me va benissimo che quella forma faccia pensare ad un fallo se bisogna trarne tutte le conseguenze! Oppure: “Non sono dei dinosauri!”, ciò mi aiuta a cogliere che un fattore ne ha fatto sorgere un altro, poi controllo se ciò è di qualche interesse per me Sono le cose più semplici che destano in me più interesse. Se un giorno qualcuno dice: “Questi che si trovano qui, per me sono dei veri cannoni” io sono contento poichè sono veramente dei cannoni. Un altro potrà dire: “Non assomigliano a dei cannoni, non assomigliano a niente”, oppure “Fanno pensare ad una scultura antica!” allora lì capisco veramente di aver sbagliato strada. Infine se qualcuno dice: “Sei su una strada che porta alla distruzione...” e altre scioc­chezze, allora lì mi annoio, e non seguirei nemmeno la fine del ragionamento; per me questo tipo di ragionamento gira a vuoto, io non mi ci ritrovo. Esattamente come leggere un libro senza alcun interesse: la concentrazione svanisce. Oppure come ascoltare una conversazione così interessante che se ne dimentica l’oggetto stesso, per ricordare un punto minuscolo, un punto che scatena nella nostra testa mille tratti luminosi che si irradiano in tutte le direzioni. In seguito si finisce per perdersi, non è vero?
Non cerco di provocare. Può essere che i cannoni facciano pensare ad una battaglia, anche se la differenza non è enorme tra una donna immaginaria di marmo che abbraccia un minotauro e l’imitazione di un cannone. Certo le persone sono colpite dal tema della pace e della guerra; è normale, ma in fin dei conti questi cannoni non sono dei veri cannoni. È questo che conta. E se fossero dei cannoni veri, l’importante è che non sparino.
Sì, il mare è fatto da una serie di piccoli materassi morbidi. Può essere che la cosa regga per la forma, per il materiale di cui sono fatti, per il taglio, per la curva affascinante, per il materiale a più riprese morbido e teso. La tela assomiglia ad un drappo e in definitiva ci sono testa e piedi dei letti. Si ricorda “Muro del sonno”, un quadro fatto di cuscini? È molto vicino al mare. È una struttura seriale: un elemento ripetuto, ma con una piccola differenza materiale: in un punto la tela tira troppo, essa non combacia; in altri punti, essa è più rilasciata.
Ho un’immagine in testa. La mia retina mi impone dei limiti, allora io taglio l’immagine. Non è il risultato di un punto focale in senso stretto; è un punto focale strutturale. Le sculture, allora, sono tagliate nel punto preciso in cui il modello strutturale esige. Dopo il taglio i critici si mettono a parlare di psicologia, di psicoanalisi, essi ne traggono ogni sorta di interpretazioni giuste o no, interessanti spero, ma... per esempio se lei guarda i tagli che ho fatto qui, più che di tagli, si tratta di sezioni. A proposito del fatto di tagliare, si può parlare di una forma di sadismo o che so io! Qui c’è un taglio, un taglio che forma due sezioni nette; si ferma lì! Queste sezioni non sono che delle forme che indicano il limite della scultura, e se essa ha preso questa forma, era senza alcuna intenzione particolare: strutturalmente parlando, il taglio, la forma, andava talmente da sè che ciò non poneva alcun problema, nè di forma, nè di disegno. La scultura per me finiva lì, era terminata. Ma evidentemente se si decapita un animale, è più divertente parlare di
“Decapitazione del rinoceronte”! Non è questione di decapi­tazione, ma di un rinoceronte decapitato, è tutta un’altra cosa! È un rinoceronte decapitato: un trofeo, come lo erano i dinosauri, le teste dei dinosauri tranciate e appese al muro.
Quando qualcuno appende a casa sua un testa di cervo con le sue corna, egli potrebbe mettere al suo posto una scultura! È questa, la mia sconvolgente idea, al posto di uno, io metto quattro trofei. E, in quattro, è evidente, occuperanno tutta una stanza. Prima idea: “Bene, appendere al muro una scultura che assomigli ad un trofeo”. Poi:” No, è meglio non appendere nulla al muro”. Quindi, farne quattro; quattro da raggruppare tutte insieme, è questo che ci vorrebbe. Infine, perché no, diventare collezionista di trofei da un metro e cinquanta per un metro e cinquanta, capisce ciò che voglio dire?
I miei progetti? Le cose che mi appresterò a fare ruoteranno intorno all’acqua. Può essere che non le faccia mai, ma in tutti i casi voglio provarci.
Mi sento molto attirato dall’acqua, è un vero specchio, l’acqua offre mille possibilità, vorrei fare delle pozzanghere d’acqua fangosa. Si va a vedere, a questo punto, chi di noi due sfrutterà l’altro, perché se è lei che mi possiede, è finita! Spesso quando penso alle cose in anticipo, esse falliscono. Al contrario, se scelgo un’immagine appena abozzata, questa riesce bene. Senza dubbio la realizzazione è più automatica e certi fatti stimolanti imprevisti entrano a far parte del gioco rendendo il tutto interessante;
Gli artisti del passato? Come dire? Da bambini, in chiesa, si vede la statua di Cristo. Si esclama “Gesù”, e guardandolo negli occhi - occhi di vetro- si può essere commossi sino alle lacrime. Dopo l’infanzia, tutto ciò appare funebre, e l’esperienza è vissuta come negativa. I pittori, gli scultori di un tempo, come quelli contemporanei, mi interessano perché esistono. Un esempio, Oldenburg: ciò che non riesco mai a cogliere, non è la realizzazione. Non poteva sorprendere, essa aveva una tale presenza che non si poteva che ammetterne l’esistenza. No, era il modo in cui egli aveva modificato le regole del gioco, per far sorgere un oggetto dall’interno; come aveva fatto a far scaturire una realtà di questo genere? Sono dei fenomeni di questo tipo che mi sembrano grandiosi nei pittori di un tempo. Michelangelo per esempio, come ha potuto, nella Cappella Sistina, creare quello spazio smisurato? Quale che sia il giudizio che si ha d’altronde sulla Sistina, questa riuscita mi da un senso d’inferiorità, oppure mi fa andare in estasi. Può essere che, solamente perché si tratta di pittori del passato, io sia soggiogato nel trovarmi tutto d’un tratto in faccia ad un’opera realizzata da un artista di tale levatura. Può essere come per l’uniforme di Napoleone; non è l’uniforme in sè che è importante, ma qualche cosa, qualche cosa... non vorrei essere iconoclasta, non voglio squalificare niente, ma di fatto le mie impressioni di fronte ad un’opera sono collegate a dei fattori del tutto estranei all’arte. Dei pittori in particolare, ciò che mi colpisce sono le presenze.
Uno scultore prendeva degli animali veri; per me è sufficiente che gli animali siano presenti nella galleria come idea, perbacco! Quando si va a visitare la Sistina, quando scopriamo Botticelli, tutti questi artisti, e nient’altro che il loro nome, fanno paura; siamo condizionati da un’infinità di fattori, di cose che abbiamo studiato prima di vederli.
La stessa cosa si può verificare anche per certi pittori americani completamente sconosciuti ancora fino a poco tempo fa. Si è intimiditi prima di aver visto qualcosa. Davanti all’opera, si scopre che essa è vicina a noi, umana, semplice: niente del grande personaggio, niente fregi, niente di tutto questo. Prima di incontrarlo si pensa sempre ad un grande personaggio. Ciò che mi colpisce più di tutto, sono le sculture dei Neri.
Le loro opere hanno una tale evidenza, una forza tale che mi prendono, mi possiedono. Attualmente i libri d’arte che compro sono tutti su questo soggetto. Tutta l’opera, anche quella di provenienza artigianale, tutto ciò che essi fanno di autentico mi appaga molto di più che un’opera di fattura contemporanea, le assicuro! C’è un abisso incolmabile tra un cucchiaio intagliato con l’accetta, con la sua straordinaria decorazione, e le nostre posate. Secondo me questi prodotti industriali sono troppo eleganti. Il disegno è sempre schiavo di un gusto determinato: gli oggetti di tutti i giorni non sono inventati; sono fabbricati per rispondere al gusto, grossolano o raffinato, ma pur sempre ad un certo gusto. Tra una foglia intrecciata per creare un bicchiere e una coppa di cristallo, io preferisco la foglia. Si avrà bel da dire e da fare. La società dei consumi crea un oggetto. Quando i Neri foggiano un oggetto, essi creano una civiltà. La creano in quel momento, con l’ardore dell’uomo che scopre i meccanismi, la scienza dell’uomo che scopre tutto.
La differenza tra il gusto specifico di un prodotto di moda e l’umanità all’opera nell’invenzione del mondo, la forza creatrice, è afferrabile in questo piccolo dio nero, confezionato in un certo modo, e che crea in quel momento la religione stessa. Le più grandi sculture dei secoli XIV, XV, XVI, o di tutte le altre epoche che lei vuole, hanno rappresentato il Cristo, ma niente a che vedere con il piccolo dio nero. Può essere ch’io esageri, ma quale che sia il punto di vista, io preferisco i Neri. L’uomo primitivo, l’uomo che cammina nudo, s’accorge che il sole si leva a destra d’una certa montagna e che tramonta a sinistra di un dato albero. Lo stesso uomo camminando lungo una foresta, scopre che il sole può anche sorgere dietro ad un’altra montagna. Quando quest’uomo ha bisogno di bere, crea con le sue mani una forma... Per far questo impiega tutta la sua energia. Crea una civiltà, un mondo adatto a lui. Non è un’opera per l’opera. Ciò che importa, è l’intensità impiegata per realizzarla... Un bicchiere, non può che invitare a bere. Non sono io che critico; ciò che ho sempre amato, sono le forme nette. Ciò che volevo soprattutto rimarcare è l’ardore che presiede alla creazione d’una civiltà. Ecco il problema degli Italiani, degli Europei: ci vuole l’ardore dell’uomo, che non ha niente altro per poter creare veramente qualche cosa.



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