Dennis Oppenheim. Il corpo dei lavori e il lavoro del corpo.
di Irmeline Lebeer
Da Chroniques de l’Art Vivant n. 40, giugno 1973, pp. 13-15
Irmeline Lebeer: Seguendo il tuo percorso a partire dal 1967, anno in cui hai proposto la tua prima opera, si ha l’impressione che i tuoi lavori di body art derivino dalla tua pratica di land art. Cosa dovremmo dedurne?
Dennis Oppenheim: Mi sembra che ci sia sempre il bisogno di stabilire i punti di connessione tra i vari aspetti della pratica di un artista. È ovvio che intorno al 1969 ci sia stata una transizione che mi ha portato a una situazione diversa da quella in cui ero prima. Ma se guardo il percorso che ho fatto, ho la sensazione che la progressione sia stata logica, quasi ritmica. La cosa più difficile è stata lasciar andare gli spazi aperti della land art, cambiare scala.
IL: Hai sempre cercato un nuovo linguaggio?
DO: Quando si è immersi in una pratica artistica, non si è sempre consci di stare abolendo la categorizzazione corrente. Intorno al 1967 però, ho avuto la netta sensazione che si stesse arrivando a un punto di stallo rispetto alla capacità di percepire un oggetto posizionato nel continuum spaziale di una galleria. Sembrava ovvio che dovessimo considerare un’alternativa, e io l’ho trovata lasciando il contesto della galleria per cercare un luogo più vivo, esterno. Credo che la parola “luogo” sia carica di significato, poiché trasmette l’allargarsi del contesto in cui l’arte tende a funzionare. Uno degli elementi più significativi della land art è la possibilità di percepire le opere come luoghi dai confini dilatabili e dotati di una materialità indefinita. Questo approccio contraddice molte delle nozioni del tradizionale contesto artistico e, nello specifico, del tradizionale concetto di esperienza delle opere. Non c’era possibilità di collezionare i lavori che producevo, potevano essere ceduti solo sotto forma di documenti che, al tempo, non erano considerati una forma d’arte valida ma piuttosto un residuo, un elemento che seguiva l’evento. Quindi quest’arte era completamente libera dal contesto delle gallerie.
IL: E la body art come si relaziona con questo approccio?
DO: Già quando facevo le performance all’aperto attivavo lo spazio che avevo scelto inserendovi una qualche sostanza, in senso concettuale o con un intervento fisico. Il tema di tutte le mie opere di land art erano i processi dinamici. Il cambiamento e il contatto fisico non sono visibili nelle immagini che testimoniano queste opere. Questo metodo di appropriazione dei luoghi attraverso la mia presenza ha una relazione specifica con il lavoro fisico che è arrivato in seguito.
IL: La transizione da uno all’altro è passata attraverso opere come Sound Enclosed Area (Area delimitata dal suono), del 1969?
DO: Si, Sound Enclosed Area era una registrazione dei miei passi mentre camminavo per Milano seguendo un percorso che circoscriveva una certa parte della città. Era ancora land art, ma in questo lavoro ero già io l’attore principale, visto che non avevo lasciato tracce sul paesaggio, se non lo svolgersi dei frammenti sonori che corrispondevano ai miei passi.
IL: Il tuo film Backtrack (Retro-traccia) appartiene anch’esso alla categoria dei lavori di transizione?
DO: Si, è un film in 16mm che mostra il mio corpo trascinato sulla sabbia. Stavo cercando una fusione tra l’azione di misurare un luogo e l’atto stesso della creazione, del fare. Il corpo è diventato lo strumento, la sabbia ha tenuto traccia delle impronte lasciate dal suo passaggio. Ho provato a rimanere il più vicino possibile al supporto, non c’era nessuna sostanza intermedia tra il materiale (la sabbia) e il mio corpo.
IL: È così che hai iniziato a usare il tuo corpo come uno strumento…
DO: Questo è un aspetto che è in parte derivato dalle mie opere precedenti: ho semplicemente lasciato che si sviluppasse. Tendiamo a resistere al cambiamento, specialmente quando ci sentiamo a nostro agio in un certo ambito e questo era il mio caso, perché avevo sviluppato un metodo di lavoro estremamente efficiente che mi permetteva di produrre grandi opere di land art.
IL: E nei lavori successivi hai completamente abbandonato la nozione di luogo e spazio per concentrarti esclusivamente sul tuo corpo…
DO: Fu un film, Arm and Wire (Braccio e fil di ferro), anche quello prodotto nel 1969, a segnare l’inizio di quella serie di lavori successivi. Si basa sull’idea dell’artista che non usa elementi secondari, siano essi un pennello o una superficie, per catturare ciò che sta facendo. Ho espresso questo concetto in modo estremamente didattico, facendo girare il mio braccio sopra a del fil di ferro, così che questo si potesse esprimere sulla mia carne. Il braccio esercita una pressione, si appoggia a una superficie e riceve la traccia della sua stessa energia. Si lascia un segno. È come martellare un chiodo nel legno, non per far entrare il chiodo, ma per lasciare un’impronta sul martello. In questo modo l’artista comunica utilizzando un elemento secondario: diventa sia il carnefice che la vittima della sua arte. E’ un sistema basato sui feedback, un sistema chiuso.
IL: Le foto del braccio che si rotola sul fil di ferro danno l’impressione che questa azione fosse pericolosa e che ti stessi facendo del male da solo. È questo l’effetto che volevi avesse sullo spettatore? Come per altri artisti della body art, sembra esserci l’ossessione di ferire il corpo: tagli, cicatrici, bruciature, etc…
DO: Per un breve periodo, il mio lavoro poteva in effetti dare l’impressione di avere delle armonie violente, di essere portatore di un’aggressività diretta al mio stesso corpo. Ma, di nuovo, ho semplicemente lasciato che il lavoro seguisse la sua strada. Ad un certo punto sembrava che un determinato grado di rischio fisico introducesse una “carica estetica”, rendendo il lavoro più leggibile e potente.
IL: Come mai?
DO: Le opere I made at that time (Ho fatto a quel tempo, 1970/71) che avevano come soggetto l’esplorazione del corpo come superficie e come materiale. Questo eccessivo accanimento nei confronti del proprio corpo sembrava una forma di abuso o di inversione fisica: un’auto-aggressione. Ma questi elementi di violenza non venivano mai ricercati in quanto tali, erano solo il risultato del fatto che l’artista era al contempo il soggetto e l’oggetto dell’azione, della trans-azione.
The Sun-Burn project (Il progetto della scottatura, 1970), una delle opere che più rappresentano questo periodo, consiste nel mio corpo esposto al sole con un libro sul petto: dopo diverse ore, il libro viene rimosso rivelando la macchia bianca sulla pelle arrossata.
IL: Quell’azione è stata molto dolorosa?
DO: No, ancora una volta, quella è l’impressione che lo spettatore può aver avuto a posteriori. Il tema dell’opera non era il dolore, ma il colore: mi espongo al sole e cambio colore. Come se stessi vivendo l’“atto di diventare rossi”. Mostra la differenza tra realtà e artificio, tra l’applicazione del colore rosso a un supporto in plastica e un elemento naturale che cambia il colore di un corpo. Diventi colore tu stesso. Questa caratteristica “diretta”, questa assenza di elementi intermedi, è la caratteristica di tutto questo primo periodo del mio lavoro sul corpo.
IL: Anche Material Interchange (Scambio materiale) appartiene allo stesso gruppo di opere?
DO: Si, è un’azione fatta con la mia unghia nel 1970. L’unghia è fatta di cheratina, come i capelli, e può essere tagliata o rimossa senza causare dolore. Di conseguenza, tagliandomene un triangolo per posizionarlo tra le assi del pavimento della galleria, stavo usando il mio sistema produttivo come fonte di materiale. L’oggetto era molto piccolo, ma aveva una presenza fisica, specialmente se lo si guardava attraverso una lente speciale (microscopio stereoscopico). Questa azione suggeriva l’idea che sei mesi prima della mostra stessi producendo del materiale che era parte integrante del mio corpo. Era come se, per sei mesi, avessi lavorato nel mio studio alla creazione di una scultura in metallo. Stavo quindi facendo qualcosa di essenzialmente tradizionale, ma il materiale utilizzato era intrinsecamente collegato al mio corpo.
IL: La relazione con il tuo corpo è cambiata da quando fai questo tipo di attività?
DO: L’attività e il corpo sono in una situazione di stallo. La logica di un’azione progredisce fino al punto in cui si raggiunge un limite, o ci si chiede se sia giusto abbandonare le nozioni acquisite o se sia possibile andare avanti.
IL: E hai raggiunto questo punto?
DO: No, ma le mie opere si sono espanse. The Extended Armor (L’armatura estesa) introdusse questa nuova dimensione, e venne eseguita alla fine del 1970. Ero sdraiato a terra, con la faccia tra due lunghe assi di legno. Di fronte a me una videocamera puntata su questa specie di corridoio mostrava la mia faccia tra le assi. L’azione, durata un’ora, includeva l’uso di un ragno, posizionato vicino alla videocamera. Quando l’animale si avvicinava, mi strappavo dei capelli dalla testa e li soffiavo all’interno del passaggio, utilizzandoli come uno scudo, un’armatura che mi proteggesse dall’aggressore.
Quello che succede dal punto di vista scultoreo è che, avendo prodotto questo genere di materiale (identificando quindi il corpo con un sistema generativo) e visto che questo materiale è stato rimosso dal suo contesto, spostato al di fuori del corpo e “esternato”, ho iniziato a soffiarci, a spostarlo sempre più lontano dalla sua fonte corporea. Ad un certo punto, stavo quindi controllando una parte del mio corpo che era a due metri da me. Stavo anche facendo richieste aggiuntive a questa parte del mio corpo esternata, utilizzandola come un’armatura che mi proteggesse da un’energia aggressiva.
Ho quindi nuovamente insistito sulla nozione di estensione: ero in un luogo preciso, una parte del mio corpo stava a due metri da me, ma io continuavo a controllarla. Ero, allo stesso tempo, qui e lì, ma quella parte di me che stava lì, era minacciata, agiva come un blocco autonomo, sempre attivo. Questo concetto complessivo di espansione, estensione (essere qui e lì, fare questo e quello, ma essere anche capaci di farlo in un’altra forma) sta alla base di molti dei miei lavori odierni.
IL: È lo stessa tema dell’opera in cui una zanzara ti pizzica sul braccio e si porta una parte di te, una goccia di sangue, verso luoghi che tu non puoi raggiungere?
DO: Sicuramente, questo lavoro si relaziona con l’idea di spostamento: della mia esistenza in un altro corpo, della possibilità che ho di essere altrove. Si basa sulla nozione di trasporto, di trans-missione, di essere trasportati verso un luogo a cui non si ha fisicamente accesso. Il metodo che ho scelto da lì in avanti però, è stato quello di usare i miei figli come veicoli per i miei progetti, perché mi permettevano di accedere a certe aree che erano al di fuori del mio personale controllo. Vedo i miei figli come estensioni di me. Non mi crea problemi considerare mie le loro azioni e le loro performance. È così che mi sono lentamente allontanato da questa attività corporea molto intima, concentrata su nozioni come quella dell’artista che è insieme soggetto e oggetto. Queste operazioni mi avrebbero infatti condotto verso un ambito completamente diverso, un ambito in cui venivano immediatamente sollevate domande riguardanti il passato e il futuro, la cronologia, la biologia e l’ereditarietà, come fattore di spostamento dell’artista che si scopre, in questo caso, attraverso i suoi discendenti.
IL: Devi avere un rapporto molto speciale con i tuoi figli per considerarli parte di te stesso come fai con i tuoi capelli...
DO: Non ce n’è bisogno. Vedo i miei figli come veicoli puri di un progetto, diagrammi che sfruttano l’impatto emotivo che si crea utilizzando la propria progenie. È lo stesso fenomeno che si verifica nel caso del lavoro che evoca la sofferenza fisica, l’artista che diventa masochista: in realtà non c’è dolore, ma il lavoro trasmette comunque quell’idea, di conseguenza anch’essa diventa parte dell’immaginario che ne deriva.
IL: Shadow Projection (Proiezione di un’ombra), l’opera che hai mostrato alla Galerie Sonnabend a Parigi, appartiene a questa categoria?
DO: Quel lavoro parla di mio padre. Quando è morto, nel novembre del 1971, ho ideato questa azione che ho eseguito quattro mesi dopo, di notte, in un campo pianeggiante. Ho usato un faro molto potente che copre una distanza di 800 metri, e mi sono messo in piedi al centro del fascio di luce, proiettando la mia ombra.
L’azione era semplice: inizialmente stavo in piedi poi, lentamente, mi accucciavo, e poi mi rialzavo gradualmente, e mentre lo facevo anche la mia ombra si allungava e si contraeva. Allo stesso tempo, suonavo una singola nota con una tromba, introducendo quindi un elemento di estensione sonora. L’azione è stata filmata da un aeroplano. L’idea, in senso fisico, era quello di estendermi sul paesaggio, sia attraverso l’immagine che attraverso il suono.
A entrambi i capi del fascio di luce c’erano due disegni ingranditi che nelle immagini di Shadow Projection non si vedono. Uno dei due disegni, riprodotti con dei flash al magnesio, era stato fatto di mia figlia (la sua prima raffigurazione di un umanoide) e l’altro da mio padre. Era il suo ultimo disegno, un diagramma scarabocchiato su un pezzo di carta mentre parlava al telefono il giorno prima di morire che trovammo sulla sua scrivania il giorno dopo. Ho chiamato il set Polarities (Polarità) perché include sia l’ultimo disegno di mio padre che il primo di mia figlia: uno causa l’altro, mentre io occupo una posizione intermedia tra i due.
IL: Hai scelto questi materiali, la luce e l’ombra, per il loro valore simbolico?
DO: Tutto il lavoro ha assunto la forma di un gesto eroico, anche solo per le dimensioni e gli elementi che convogliava: un fascio di luce di ottocento metri (prodotto da una lampada ad arco incredibilmente potente); l’ombra, che si sollevava da terra di quasi sessanta centimetri e viaggiava attraverso questo raggio, uno spazio galleggiante e genuino.
C’è il reale tentativo di trasportare una figura oltre il suo limite determinato. Il corpo viene come scagliato in lontananza, volevo davvero che “attraversasse il confine”.
IL: Un’altra opera che hai appena presentato in Francia e in Belgio si chiama Ground Gel (Gel sul terreno). Mi sembra che ponga le stesse questioni.
DO: È una proiezione continua di slide a colori, in cui faccio volteggiare mia figlia in aria: le immagini sono catturate da una posizione rialzata. Si vedono le nostre teste e le nostre braccia allungate e si vede mia figlia che vola e vola nello spazio. Quando accelero inizia a svanire, scomparire, diventare sempre meno percepibile finché i nostri due corpi non diventano uno: vediamo delle braccia, ma non vediamo più le sue mani che stringono le mie, percepiamo solo una continuità, un mischiarsi di carni sempre più amorfo che arriva a diventare una forma sferica che ruota sul pavimento e diventa man mano più diafana e invisibile finché non si fonde completamente.
Ma il tema di questo lavoro è tutto incentrato sull’artificio. Quello che mostra non succede davvero: noi non svaniamo. Si concentra su questa forma di trasmissione che si verifica con i discendenti: suggerisce che mia figlia mi stia portando in uno stato futuro, che mi stia trasportando verso il futuro. La colonna sonora che accompagna le immagini libera una sorta di melodia soffusa, che ripete costantemente che sto andando lì, che voglio conquistare il suo spazio fisico, che lei si sta smaterializzando intorno a me e che voglio che lei mi porti, in un certo senso, in quell’altrove.
IL: Pensi sarebbe giusto dire che più fai ricerca sul tuo corpo, più ampio diventa l’ambito dei tuoi studi?
DO: Il mio approccio generale potrebbe essere visto come una caccia allusiva e chimerica, piena di trappole piazzate coscienziosamente. Ciononostante, cerco di essere il più rigoroso possibile. Il problema che sto affrontando è estremamente arduo, si possono vedere tutti i fattori coinvolti, ma per poterli esprimere è necessario combattere continuamente contro dei limiti. Sfidando le leggi fisiche si può progredire solo grazie allo sviluppo di una pratica allusiva.
IL: Stai parlando del confine tra il fisico e il metafisico?
DO: Agisco essenzialmente su un livello fisico, anche se spingo l’esperienza il più lontano possibile, in direzione di una ricerca del sé. Ma non mi riferisco di certo a concetti esistenziali o teologici: non sto cercando una nuova definizione del sé.
Il mio lavoro odierno è essenzialmente basato su un tentativo di abolire il confine tra un’azione portata avanti nei limiti della mia vita e l’azione che vorrei contemporaneamente portare avanti al di fuori di questi limiti.
Traduzione dal francese di Joris D’hooghe