Marisa Merz
(Torino 1926 - 2019)

Senza titolo 
argilla cruda, vernice metallica

Senza titolo
argilla cruda, paraffina

Collezione Merz, Torino

Le sculture di Marisa Merz rimandano a una natura prefigurale e archetipica. Le minute teste d’argilla cruda, liberate da ogni sovrastruttura o collocazione, si aprono a una dimensione antropologica in cui la molteplicità delle forme culturali diventa l’emblema della natura universale umana. Queste forme poetiche e anti-monumentali si ispirano a una radicale visione di “nuda vita”, lontana dalla separazione uomo-natura e avversa alle logiche del sistema, della produzione e del consumo. Sono un invito a riappropriarsi dell’esperienza autentica, del sé e del reale. 
Contenuti speciali

Marisa Merz
di Rudi Fuchs 

Da Marisa Merz (Catalogo della mostra organizzata dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, presso Villa Delle Rose nel 1998), Hopefulmonster, Torino, 1998

 

Per quel che riguarda Marisa Merz e la sua produzione artistica è forse più appropriato iniziare da qualche altra parte, ma da dove? Lei stessa si diverte a depistare: una volta mi disse che era nata a Hong Kong.

Quando giunsi a conoscerla meglio, scoprì che amava la riservatezza. Le piace nascondere o oscurare le origini e i motivi del suo lavoro. Le poche cose che ha pubblicamente detto al riguardo sono molto private, metaforiche, tali da disorientare. Il più delle volte l’opera stessa è di difficile scoperta, quasi nascosta; quando appare, casualmente, si mostra fragile e evasiva come se preferisse scomparire di nuovo il più in fretta possibile senza lasciare tracce.

L'improvvisa sparizione, tuttavia, non gioverebbe alla lusingante lentezza con cui si è manifestata. Marisa Merz è un enigma. Di solito, la struttura di un lavoro, un'opera, sottoposta a molti anni di studio, ha una forma e una sostanza specifiche. Temi e forme sono sviluppati, i modelli evolvono nel tempo, le invenzioni e le variazioni si dischiudono. Quindi, si potrebbe – com'è consuetudine – incominciare dall'inizio, il primo lavoro della prima esposizione che si tenne a Torino nel giugno 1967. Lei presentò un lavoro tridimensionale strano e grande: aeree e lucenti forme in alluminio, leggere e circolari e cave, simili a pezzi di tubo, molto agili e flessibili, pendenti dal soffitto e dalle pareti, avvolgentisi e arricciantisi come un grasso serpente.

Non vidi quell'esposizione. Quanto ne so, comprese le impressioni, discende dalle poche fotografie che esistono (tutte dall'impatto piuttosto forte e ricche di chiaroscuro) e, anche, dall'avere visto, più di dieci anni dopo, il materiale d'alluminio originale giacente in un angolo del grande studio torinese che Marisa talvolta divideva con Mario Merz. Da quei pezzi di alluminio appesi là nella fredda luce del mattino emanava una strana magia: quel lavoro non era più un lavoro ma un tempo lo era stato e forse, un giorno, avrebbe potuto tornare a esserlo.

E adesso, stendendo questo testo senza possedere un punto di partenza, e riflettendo su ciò che ho conosciuto dell’opera di Marisa dal tempo di visita al suo studio (compresa la meravigliosa fiaba che tessé nell’estate scorsa nella Galleria Stein di Milano), mi chiedo se, nel sue caso, l’opera così come viene tradizionalmente concepita, reale e dai contorni precisi, realmente esista.

Mi ricordo le forme di alluminio penzolanti nello studio torinese. Mi viene in mente anche un’immagine di lei intenta a collocare un disegno nel Castello di Rivoli.

Il disegno, dalle dimensioni  ragguardevoli, era molto bello: vi erano rappresentati graziosi lineamenti di un volto che emergeva da un’intricata ragnatela  tratteggiata con tenui segni di matita. Tuttavia lei insisteva nel dire che non lo si poteva appendere a una parete. Doveva essere prima posto su un tavolo alto e stretto e quindi accostato alla parete. Persino il semplice disegno divenne parte integrante di un'elaborata installazione come a volere indicare che era solo un materiale, un elemento, forse solo una sembianza di discorso.

Anche in altre occasioni ho osservato Marisa disporre lavori, sempre molto concentrata, intenta a maneggiare gli oggetti con estrema delicatezza, scegliendo la collocazione con grande cura - lentamente come un bambino che piazza statuine in un presepe. A dire il vero, forse Marisa ha raccolto col trascorrere degli anni materiali (piccole sculture, oggetti trovati, lavori a maglia di rame, disegni) che tiene e cura amorevolmente finché il tempo "non è maturo“. Poi un’ opera viene alla luce (un invito che lei non può rifiutare) e permane per un certo periodo di tempo: una estrinsecazione di atti personali, fragile e discreto. È possibile che l'opera, in questo caso, trascenda tali installazioni occasionali, tanto la loro intimità, la cura e la prudenza della loro struttura (si potrebbe giungere a dire la loro grafia) come le cose di cui sono composte.

Pertanto l'opera è materiale e ciononostante immateriale: suono e silenzio che si alternano, o un'opera di voci sussurranti.

Concedetemi di iniziare da un altro punto, da Mondrian. Un pomeriggio, stavo chiacchierando con Marisa a Milano. Era un nebbioso pomeriggio d'autunno e nella mattinata aveva piovuto. Marisa disse di aver scorto la facciata di una casa col suo ritmarsi di finestre e porte, attraverso i rami d'un albero, e subito dopo d'avere visto l'albero attraverso la facciata della casa. Sorrise. Lei ha questo sorriso meraviglioso, leggermente malizioso. Guardai attraverso la finestra gli alberi nel parco al di là della strada, di fronte all'appartamento. Intendi dire – le ribattei – che hai visto gli alberi riflessi nelle finestre e le immagini  riflesse degli alberi interrotte, intersecate dalla parete della casa? La cosa aveva un suo senso. No, disse lei, ho visto gli alberi attraverso la casa e la casa attraverso gli alberi. La conversazione, nel suo prosieguo, mi ricordò un'altra conversazione che avevamo avuto, molti anni prima, nella caffetteria del Louisiana Museum, in Danimarca.

Stavamo guardando la distesa del mare. Non ricordo nel dettaglio cosa esattamente ci dicessimo. Fu una lunga conversazione, piuttosto intensa, sull'infinità del mare, su quel suo colore blu-grigio cupo, sull'orizzonte che sfuma nella foschia e nel cielo. La conversazione scivolò come il lento gonfiarsi del mare stesso e non giunse mal a una conclusione. A più riprese, in seguito, quando ci incontravamo, tornavamo di tanto in tanto a questo tema, alla contemplazione del mare, del suo movimento, onde che prendono una forma muovendosi e subito la perdono senza mantenerne una in particolare, e dell'esistenza senza forma né riposo del mare blu-grigio.

Comunque espressa, con qualsivoglia metafora, quell'idea di una forma senza contorni, di forme che incessantemente assorbono altre forme la affascinava.

A un certo punto debbo averle mostrato un piccolo disegno di Piet Mondrian, realizzato prima della svolta astrattista, e ora conservato nel Museo dell’Aia. Ondeggianti tratti di matita vi tratteggiano il mare, di quando in quando vivaci come a riprendere il ritmo delle onde. L’orizzonte è una linea sottile, non molto dritta. Il cielo mostra indizi di nuvole. Attorno a questa Immagine Mondrian aveva disegnato in modo impreciso un ovale, probabilmente per dare a quell'immagine quasi informe un che di sostanza. Ma non posso mai dimenticare, quando osservo il disegno, che l'ovale evoca anche la forma dell’occhio. (Se Mondrian fosse Magritte il disegno potrebbe anche essere il riflesso del mare in un occhio).

Un altro disegno di Mondrian anteriore e ugualmente disorientante, ci riporta agli alberi e alla casa di Marisa. La metà superiore del disegno mostra una bassa casa di campagna vista attraverso un paravento di alti alberi. Sotto vi è dell'acqua, nella quale le cime degli alberi si rispecchiano cupamente.

Naturalmente sappiamo che gli alberi stanno davanti alla casa, e tuttavia vediamo entrambi gli elementi simultaneamente: forse uno vede persino la casa prima di vedere gli alberi. Questo e altri disegni di Mondrian mi ricordano alcuni disegni di Marisa – come quello che lei con così grande cura collocò nel Castello di Rivoli. La testa e il viso femminili che emergono lentamente da una ragnatela di lunghe linee che si arricciano, graziose, sottili come capelli (e che si attorcigliano, si rammenta, come le forme di alluminio nella prima esposizione del 1967).

Marisa Merz è affascinata dall'arte di Mondrian (così come è affascinata dal mare) ma i suoi disegni sono, naturalmente, diversi da quelli di Mondrian. I rispettivi scopi e propositi divergono decisamente. Nell'evoluzione dell'opera di Mondrian i piccoli disegni che ho citato erano esplorazioni di trasparenza e quindi punti formali di passaggio. Lui, l’artista simbolista e astrattista, era interessato a creare una forma definitiva e duratura. Credo che l'interesse di Marisa Merz vada in senso opposto: il suo scopo reale è di procrastinare la forma finale.

Naturalmente, ciò è impossibile: ma il dedicarsi a quel compito irraggiungibile caratterizza precisamente la determinazione quasi mistica di Marisa.

Ovviamente la scelta dei materiali e il loro uso sono anche loro caratteristici di questo atteggiamento. I materiali sono duttili e facilmente malleabili.

Particolarmente amate soni la cera e un tessuto plasmabile fatto di un filo di rame sottile: materiali che a fatica prendono una forma, che in sé pesano quasi nulla (così come l'alluminio usato nel primi lavori) o nei quali le forme sono instabili e inconsistenti. Qualsiasi cosa mostra alla vista una sua forma. Ciò che noi chiamiamo mancanza di forma non è che una forma che non si può descrivere in modo appropriato e che ci spinge a inventare un'immagine simbolica adatta come, a esempio, una palla di fuoco per il Sole, la forma ”reale" del quale è assorbita dalla tremenda intensità della sua luce esplosiva. Nel contesto dell'immaginazione di Marisa, lei vorrebbe interessarsi più alle onde di luce che alla forma regolare, simbolica del Sole – così come è ossessionata dall'intricata ragnatela di linee massimamente interrotta, apparentemente infinita, un vero labirinto, più che dalla faccia che da essa è disegnata. Osservando questi enigmatici disegni mi colpisce che persino l'evidente lungo processo della loro realizzazione sia in sé una metafora di un’ immagine "senza fine" un'immagine che quasi non finisce più, che non giunge mai a una conclusione. Anche se essi appaiono essere finiti almeno per un attimo e mostrati occasionalmente in diverse e mutevoli installazioni (che di per sé mettono in discussione l'Idea di qualsivoglia forma definitiva), ogni disegno potrebbe facilmente essere continuato, tale è la maniera in cui i disegni sono costruiti.

La forma della testa e  i suoi lineamenti facciali non sono definiti anticipatamente, come se il modello fosse là – davanti agli occhi dell'artista – per essere "preso". La forma e i lineamenti crescono e cambiano durante l'atto di disegnare e possono cambiare tanto più quanto più il disegno continua a svilupparsi. In questo lungo e elaborato processo non vi è nessun punto particolarmente logico nel quale il disegno (cioè: l'immagine) potrebbe essere detto finito. Pertanto il modo stesso di disegnare di Marisa Merz può essere compreso come una metafora dell'infinitezza, del procrastinamento della forma finale. L'impossibile sogno che motiva il suo lavoro, come un'ossessione, è il fare ciò che non può essere fatto ma che forse può essere espresso per metafora come la forma informe, o almeno come forme che si conformano alle circostanze, in costante mutamento, e alla strana mancanza di forma di materiali duttili - senza divenire prigioniere di una definizione formale che porrebbe fine al processo creativo stesso e, di conseguenza, al processo di mutamento continuo. Comprendo benissimo la riluttanza di Marisa Merz ad esporre. Un'esposizione rappresenta una definizione e un'affermazione conclusiva.

Ma lei concepisce la propria arte, così come la vita, come il proseguimento del cambiamento e della crescita. A suo avviso, ogni forma deve racchiudere la possibilità di divenire qualcosa di diverso - come il mare, e le nuvole nel cielo. Dieci anni fa, a Eindhoven, organizzai una mostra sul Don Giovanni di Mozart. Chiesi a un gruppo di artisti di contribuire con la loro arte a trasformare le sale del museo in ambientazioni immaginarie per specifiche scene dell'opera. A Marisa Merz fu chiesto di caratterizzare i protagonisti con delle maschere. Ricordo di averle chiesto di produrre qualcosa sulla base di quel disegni di "visi" fatti come di pizzo. Ci pensò su per pochi giorni, guardandosi attentamente attorno, poi chiese delle candele, delle piccole padelle e un piccolo bruciatore a gas. Al centro del museo (nella sala dove le maschere sarebbero state alla fine mostrate) allestì la sua cucina e iniziò a far sciogliere le candele. Fece delle minuscole teste meravigliose e delicate qualcosa di riconducibile alla tradizione di Medardo Rosso. Ciò che mi colpì, tuttavia, fu che le teste erano quasi, se non del tutto, prive di una loro individualità. Erano più simili a maschere. Naturalmente vi erano delle differenze tra loro. Una testa era piuttosto piatta, un'altra più rotonda, un'altra più allungata. Accenni della bocca, del naso, degli occhi e delle orecchie erano minuscoli o quasi assenti. Lei rifiutò, naturalmente, di dare un nome alle teste. Quale di esse rappresentasse Don Giovanni o Donna Anna o Leporello rimane un Segreto. Tutte le teste insieme erano in realtà "stadi" di una testa che naturalmente era una mistificazione non-esistente, proprio come le mutevoli forme di una nuvola che naviga per il cielo non derivano da una forma nominale o principale. Tale forma non esiste. La forma della nuvola è "definita' da tutte le metamorfosi che intercorrono durante il suo breve arco di vita. Osservare Marisa Merz realizzare quelle teste, plasmare la cera con delicati, carezzevoli movimenti delle mani, fu un'esperienza affascinante. Credo che mi fece comprendere i microcosmi della sua arte e io compresi il significato del suo lavoro a maglia di rame. La magia di un singolo, sottile filo, i movimenti semplici e calmi del due ferri, la concentrazione, la lentezza. Ma sommamente importante è l'idea, e la realtà, del singolo filo che può dare vita a forme mutevoli di illimitata varietà. In teoria quel filo è infinito, se solo la vita lo permette. Cosi l'arte incontra la vita.