Tracce e immagini residue. Una conversazione con Gary Hill
di Helena Ferreira
Da Gary Hill: Unspoken Dialogues, 2017, Faculdade de Belas-Artes da Universidade de Lisboa, Edições Universitárias Lusófonas, Lisbona 2017
Gary Hill è un artista intermediale che espone su scala internazionale dagli anni ’70 e, da allora, ha influenzato il panorama artistico contemporaneo attraverso un approccio profondamente sperimentale alla corporalità dei media, stabilendo una relazione unica tra arte e tecnologia.
Utilizzando schermi, installazioni di immagini proiettate o sculture, Gary Hill è riconosciuto per le sue intuizioni sul linguaggio, il corpo, l’identità e l’immagine, che hanno sollevato questioni sulla materialità, la performatività e le esperienze liminali. Nella sua opera possiamo vedere la reinvenzione delle tecniche e possibilità tecnologiche dei media, evidenziata dal suo innovativo lavoro nel video, nella performance e nell’installazione, dove ha utilizzato sistemi di produzione elettronica delle immagini.
La seguente conversazione è stata portata avanti via e-mail e include le revisioni e le aggiunte di Gary Hill.
Qui, stiamo notando come la fenomenologia della proiezione abbia una dimensione parallela nel linguaggio ambivalente (torsionale): parole e sintassi con un apparente doppio significato, come se un evento verbale girasse sul suo asse e cambiasse la sua forza semantica1.
Helena Ferreira: Gi schermi e le proiezioni hanno significati concomitanti nell’ambito dell’installazione di immagini, così definita per includere ogni tipo di immagine (in movimento, ferma, elettronica, animata) che possa essere installata in uno spazio o superficie tridimensionale, o persino diventare un oggetto o una scultura. Ma io credo sia possibile delineare alcune differenze. Supponiamo che, in generale, uno schermo sia una superficie (di qualunque genere) su cui appare un’immagine proiettata, riflessa o emanata e consideriamo come punto focale la materialità di quella superficie, la sua portabilità, scala e ubiquità. Partendo da questo punto di vista, più o meno qualsiasi cosa può diventare la superficie di uno schermo. D’altra pate, la proiezione ha una certa complessità supportata dall’apparato proiettante, composto da una fonte di luce, dall’immagine e dallo spazio che racchiude le prime due; durante il processo di proiezione inoltre, tutte sono soggette a interferenze, anch’esse determinanti per il risultato finale.
Se proiettare un’immagine prevede la formulazione e la composizione della stessa in uno spazio determinato, concentrandosi sul fenomeno luminoso, che trasporta lo spettatore in uno spazio-tempo definito, un’immagine emanata da un monitor solleva invece la questione della materialità e della superficie del display. Quando ti trovi a determinare il modo in cui vuoi che gli spettatori facciano esperienza del tuo lavoro, queste questioni influenzano il tuo processo di lavoro? Come distingui o stabilisci relazioni tra queste due forme di installazione dell’immagine nello spazio? Per esempio in Suspension of Disbelief (for Marine) (Sospensione d’incredulità - per Marine), che non è una proiezione, i monitor occupano tutto lo spazio disponibile che diventa quindi parte dell’installazione stessa.
Gary Hill: Citando Suspension of Disbelief (for Marine) (1991-92) hai preso in considerazione un’eccezione, poiché è un’opera muta; voglio dire che in essa non uso il linguaggio/la voce per manipolare l’immagine. Il linguaggio qui è fatto con il disegno, il continuo disegnare e cancellare una linea di immagini che faticano a costruire due corpi intrecciati mentre questi si muovono a ritmi differenti per attraversare, e poiché attraversano, l’intero spazio. I 30 schermi (CRT2), essendo attaccati ad un palo in alluminio, non sono separati, ma bensì parte integrante della componente scultorea o architettonica. Gli schermi devono essere aggiornati ogni due fotogrammi (la lunghezza che secondo quanto ho scoperto è ottimale per ottenere la perfetta durata dell’immagine residua e la perfetta cancellazione della stessa). Le immagini/corpi acquisiscono un senso di urgenza: se dovessero smettere di muoversi, smetterebbero di esistere. Al tempo lo collegai ai giocattoli dei bambini, le famose lavagne magiche, su cui dovevi continuare a disegnare per far si che l’immagine non sparisse.
In generale ho utilizzato entrambi i metodi in maniere diverse, a seconda di quello che ogni specifico lavoro richiede… Per Switchblade (Coltello a serramanico, 1998- 99) la struttura del montaggio lega tra loro le due superfici e il monitor funziona in qualche modo come un ingrandimento. Una proiezione di immagini ravvicinate di varie cicatrici e segni della pelle, descritti nella registrazione audio frammentata che accompagna il lavoro, sono montati insieme o piuttosto intessuti attraverso un incremento di due fotogrammi che alternano tra le due e le sei scene (uso ‘scene’ per riferirmi all’unione delle immagini con la loro descrizione in tempo reale). Mano a mano che le scene vengono aggiunte o tolte le immagini rallentano o accelerano, poiché le scene sono multiplexate, e il loro tempo è quindi condiviso. Di fronte a questa proiezione c’è poi un monitor CRT che mostra solo una delle scene estratta da ognuno dei segmenti in bianco e nero, selezionata a partire dalla scena (o scene) multiplexata. Anche quest’immagine ha una velocità diversa a seconda del numero di scene percepibili in quel determinato momento e fa lampeggiare due fotogrammi contemporaneamente, come una luce stroboscopica a velocità variabile.
Subito sotto la superficie di alcune opere precedenti a questa, ho incorporato una critica alla televisione che diventa visibile solo con il passare del tempo. In Situ (1986) crea una sorta di piattaforma/spazio per la visione usando una poltrona con i cuscini visibilmente ristretti, che è uno specchio per il mobile da televisione che le sta di fronte, con dentro un CRT che sembra a sua volta essersi ristretto e staccato dalla sua cornice. Lo assimilo a un bulbo oculare che, in un corpo morto da tempo, si è seccato e contratto fino a cadere fuori dal teschio. L’opera completa include dei ventilatori elettrici e una fotocopiatrice sospesa dal soffitto che sputa fuori immagini estratte dal programma trasmesso dalla televisione. È una performance di sistemi, con tutti i meccanismi che si accendono e si spengono in sincronia con ciò che si vede sul display: un montaggio che porta dallo spazio soffocante dato dalla lettura di un romanzo di Blanchot a un momento estremamente pubblico dell’Irangate che ha come protagonista Ronald Reagan. Tutto si addensa rapidamente e la questione della superficie e della fonte dell’immagine sono insignificanti o profondamente intrecciate nelle maglie del lavoro.
Un altro esempio significativo è Tall Ships (Navi d’alto bordo, 1992), ma anche Beacon (two versions of the imaginary) (Faro - Due versioni dell’immaginario, 1990), And Sat Down Beside Her (E seduto vicino a lei,1990), I Believe It Is an Image in Light of the Other (Credo sia un’immagine alla luce dell’altra, 1990-91), The Storyteller’s Room (La stanza del narratore, 1998), dove ho utilizzato dei CRT da 4 pollici con l’aggiunta di lenti da proiettore scadenti cercando un tipo diverso di luce, focus e luminosità e, in un certo senso, per andare contro la convinzione, popolare al tempo, che una risoluzione più alta fosse sicuramente migliore. Dall’altro lato, sono stato spinto a fare esperimenti in quella direzione solo grazie a una coincidenza. Avevo lascito una videocamera Portapak di prima generazione accesa sul treppiedi vicino ad un muro. Quando sono tornato a casa, nell’oscurità si poteva vedere una piccola immagine proiettata dall’obiettivo in plastica della camera. Tendo a produrre a partire da quelli che le persone chiamano “felici incidenti”.
HF: Ti riferisci a un certo tipo di processo creativo di costruzione, o meglio decostruzione, in cui i dispositivi tecnologici, analogici o digitali, schermi o proiezioni, hanno quasi il ruolo di materie prime necessarie per produrre altre sostanze…
GH: La luce che viene emessa dal CRT ha molta più sostanza di una proiezione o del display di uno schermo piatto, anche quando consideriamo la tecnologia odierna. Infatti, non ci sono proiettori o schermi piatti che riescano a fare il nero al 100 per cento, quello privo di luce. Almeno che io sappia. Forse a causa del mio background nella scultura, mi sono concentrato sul fare a pezzi i CRT e mostrare le loro interiora come una sorta di decostruzione, o almeno sottolineando le loro qualità oggettuali. Ogni lavoro, comunque, aveva delle connotazioni o degli impulsi metaforici leggermente diversi. In Disturbance (among the jars) (Interferenza - tra i barattoli, 1988) i monitor si riferivano in maniera letterale ai barattoli in cui si pensa sia stata scoperta la Biblioteca Nag Hammadi; con Inasmuch As It Is Always Already Taking Place (Nella misura in cui sta sempre già accadendo, 1990) c’è una relazione diretta tra la dimensione dei 16 CRT e varie parti del corpo, rendendo la nozione di contenimento intensamente viscerale; And Sat Down Beside Her include un CRT utilizzato come una lampada sospesa sopra un tavolo: la luce “proiettata” passa attraverso un piccolo obiettivo, montato al posto della quarta gamba del tavolo, prima di illuminare, con il volto di una donna che sta leggendo il testo che accompagna l’opera, un libro aperto su una sedia; e in Clover (Quadrifoglio, 1994), vediamo quattro uomini che camminano dandoci la schiena. Ognuno di loro cammina su un sentiero in mezzo a un bosco, in uno spazio monitorato da una una camera attaccata alla schiena che gli inquadra le spalle e la testa. Qui il CRT funziona come il vuoto verso cui vediamo camminare le persone, mentre procedono in direzione di un centro assente. Se immaginiamo di vedere l’installazione in senso topologico, vedremo apparire l’immagine di un quadrifoglio.
In sintesi, differenziare schermi e proiezioni è secondario nell’ambito dei sostegni concettuali di un dato lavoro. Mi vedo lavorare entro un certo tipo di ambiente cibernetico piuttosto che come produttore di immagini, e il processo di lavoro include raramente immagini fini a loro stesse. Spesso si verificano comunque delle situazioni tra i media e/o il supporto su cui viaggiano le immagini, a prescindere da ciò che sono. È una questione di intermedialità o alle volte di sinestesia.
Pensando alla superficie, il lavoro Cut Pipe (Tubo tagliato, 1992) mostra l’immagine di mani che manipolano un altoparlante, proiettato sulla superficie di un effettivo altoparlante. Mentre recito un testo estremamente auto-riflessivo, le mie mani stanno sentendo la mia voce e cambiandone il suono spingendo, graffiando e toccando la membrana dell’altoparlante. In questo caso in particolare la posizione della “superficie” diventa ambigua: la membrana dell’altoparlante sta imitando la superficie di proiezione o la membrana interna dell’orecchio o è forse che “il bordo che divide la bocca dalle parole è stato pre-registrato”3? Il “tubo tagliato” potrebbe essere visto come una sorta di di sezione trasversale degli strati di media/materiali che lo compongono.
HF: Secondo me per esempio, il tuo lavoro Inasmuch As It Has Already Taken Place (Nella misura in cui è già accaduto, 2014) va ancora oltre per quanto riguarda la materialità e funzionalità dello schermo del monitor. Usando le tue parole, vedi i monitor di quel lavoro come “simulazioni scorporate” che risultano in “tracce o immagini residue”4 di quelli presenti nell’opera che, con quel lavoro, hai voluto rivisitare (Inasmuch As It Is Always Already Taking Place, 1990). Questo desiderio di riferirti alla presenza materiale dei dispositivi analogici è in qualche modo collegato al tipo di presenza evocata in Viewer or Stand Apart (Spettatore o non lasciarti coinvolgere)? Questi lavori, uno del 1990 e l’altro del 2014, nel tempo si riflettono l’uno nell’altro infinite volte, in cerca di un’identificazione dialogica tra la tecnologia passata e quella presente?
GH: Per essere chiari non ci sono monitor, cavi, elettronica e nemmeno elettricità nel lavoro. Non stavo ragionando nei termini del contrasto tra analogico e digitale e/o tecnologia passata e presente. Detto questo, riesco a immaginare come queste idee vengano evocate. Penso avesse più a che fare con il modo cui ci si libera di certe identità e significati, sempre associati con ciò che si è sempre fatto o del resto anche di una specifica opera che viene considerata emblematica. Stavo pensando all’idea di scavare nel proprio lavoro e/o staccarlo dall’identità storica che ha sviluppato lungo la sua strada. E francamente, sono così stanco di sentire le parole video arte che volevo punzecchiarla un po’, quindi ho creato un fantasma. Al momento sto giocherellando con le proiezioni sulla superficie di vetri soffiati a forma di CRT che in qualche modo potrebbero “inarcare” il vuoto tra la proiezione e gli schermi, ovviamente solo in senso metaforico.
HF: La connessione tra schermi e immagini proiettate in qualche modo emerge anche da un linguaggio di rappresentazione che non solo ci trasporta in un tempo e in uno spazio diversi, ma permette anche allo spettatore di stabilire un’intima consapevolezza del corpo attraverso l’atto di performare con il lavoro. A partire dagli “aloni luminosi”5 di Tall Ships, possiamo vedere diversi altri tuoi lavori in cui proiezioni video o di luce sono installate nello spazio in maniera estremamente significativa. In lavori recenti come Painting with Two Balls (after Jasper Johns) (Dipingere con due palle - dopo Jasper Johns), Cornered (Messo all’angolo) e Dream Stop (Fermata da sogno) le immagini proiettate sono trasportate, moltiplicate, sospese e deformate al punto da diventare a tratti irriconoscibili, senza che si riesca a capire se il motivo è una distorsione o una sovrapposizione. Guardando queste opere, sembra che la proiezione sia una sorta di materiale che elabora, un sostanza che crea, costruisce e struttura gli oggetti e lo spazio che li circonda. Come colleghi la tecnologia delle proiezioni e l’esperienza di visione che provocano con lo spazio espositivo?
GH: Ha un duplice significato: c’è un tentativo consapevole di lavorare con la proiezione in quanto materiale, ma allo stesso tempo mi sto confrontando con la storia della pittura e con un pastiche di simboli culturali. In un certo modo questi riferimenti hanno sostituito la mia sete per l’utilizzo del linguaggio. Non sto usando nuove tecnologie nei lavori di cui parli. Sto ancora nello studio a cercare di mettere insieme cose che non sempre sono state fatte per stare insieme e molto spesso questo è il punto in cui si verificano cose che non avrei mai potuto immaginare prima di quel momento. Ovviamente ci sono tecnologie ben più avanzate, come ad esempio il video-mapping e le proiezioni a laser e tutto ciò che queste comportano, è solo che non ho mai incrociato niente del genere in un momento che coincidesse con un’idea valida che mi desse l’impulso di usarle, o almeno non ancora.
Considerando le proiezioni di luce da un altro punto di vista, Midnight Crossing (Attraversamento di mezzanotte, 1997) e 23:59:59:29 - The Storyteller’s Room (23:59:59:29 - La stanza del narratore, 1998), incorporano l’abilità delle luci stroboscopiche di produrre delle singole e velocissime pulsazioni di luce intensa che lasciano delle lunghe immagini residue. Diventa interessante quando queste immagini residue vengono sovrapposte a immagini proiettate con una luminosità estremamente bassa. Opera sulla memoria in maniere improbabili che sono difficili da descrivere. E quando vengono connesse a “isole” isolate di frasi parlate che si accumulano nel tempo, il processo della memoria diventa una sorta di narrazione in e di sé stessa. In altre parole, si mescolano un’immagine “stampata” sull’occhio/cervello e una che stiamo “guardando” nello spazio in cui ci troviamo. Trovo che questa sia un’estensione interessante dell’idea di “post-schermo”. Forse la si potrebbe definire pre-schermo (prima dell’immagine).
HF: L’idea di unire materiali che non siano facili da combinare armonicamente sembra piuttosto evidente in Language Pit (Pozzo del linguaggio, 2016), poiché mette insieme device elettronici diversi, ovvero delle microcamere attaccate a degli altoparlanti, così da creare soluzioni audiovisive particolari, che sono anche associate a narrazioni e parole che sembrano avere significati diversi, opposti o non collegati. Puoi parlarci di più di questo lavoro in divenire?
GH: Suppongo sia una continuazione di un certo numero di opere che ho fatto utilizzando il cono dell’altoparlante come un oggetto viscerale. Si può tracciare a partire da Mesh (Rete, 1978) in cui 16 piccoli coni da tre pollici sono attaccati a una rete di cavi diffusa nell’intero spazio. Riproducono degli oscillatori di onde quadre i cui toni variano a seconda di come la rete di cavi è calibrata. In base alla loro dimensione e prossimità al materiale della rete, il suono resterà attaccato alla superficie invece di diffondersi nell’aria della stanza.
Poco dopo ho creato Soundings (Scandagliamenti, 1979) che includeva una serie di manipolazioni di coni di altoparlanti utilizzando sabbia, acqua, fuoco, spine di acciaio e voce e tutti questi elementi servivano nuovamente a sottolineare la fisicità dell’altoparlante prima che si potesse discutere della sua capacità di riprodurre un suono in senso stretto, in altre parole il suono non lasciava mai in modo significativo la superficie del cono. In un certo senso stavo trattando la superficie dell’altoparlante come fosse un schermo di proiezione, e l’ho poi fatto in senso letterale con Cut Pipe (1992) in cui ho proiettato l’immagine di un altoparlante che io stesso sto manipolando direttamente sulla superficie di una altro altoparlante che sta riproducendo il suono alterato della manipolazione. Forse in questo senso Language Pit sta provando a fondere la fisicità dell’immagine e i suoni dello schermo tramite la manipolazione diretta di una videocamera operata da una voce che passa attraverso la superficie o la pelle dell’altoparlante. Il testo, anche se ad oggi non lo considero completo, è stato scritto e modificato la mattina dopo le elezioni americane. Al contempo mi stavo arrovellando sul tema dei pronomi neutrali/non-binari quindi direi che possiamo definirlo come minimo uno strambo miscuglio.
HF: In che modo il testo parlato prodotto per Language Pit è stato influenzato dalle elezioni?
GH: Per dirla in breve, ero distrutto. Mi sono letteralmente ammalato e mi succede ancora quando mi ricordo questo fatto che voglio così violentemente dimenticare. Raramente lascio che gli eventi correnti creino confusione nello spazio da cui prende forma il mio lavoro, ma a volte capita e questa è stata certamente una di quelle volte. Sicuramente ci sono frasi che non mi sarebbero arrivate senza quel risultato elettorale e ne manterrò molte, ma renderò quest’influenza meno evidente, meno associata a quello specifico evento così da lasciare all’opera lo spazio per esistere al di fuori di quel contesto.
HF: Il riferimento che fai, da un lato alla superficie dell’altoparlante come schermo di proiezione, dall’altro alla superficie dell’altoparlante come pelle, ci porta alla questione della liminalità, ciò che ha corpo e ciò che è incorporeo nei materiali con cui lavori, che sta molto spesso tra il viscerale e il superficiale. Credo infatti che ci sia una relazione molto stretta tra la nozione di liminalità e la nozione di schermo, di cui parla Kate Mondloch, quando dice che gli schermi sono entità con un doppio significato, intendendo che funzionano “simultaneamente come soglie immateriali aperte su un altro spazio e un altro tempo e come entità materiali, solide. (…) la loro forma concreta modella sia lo spazio che li circonda che le loro relazioni con i soggetti che li guardano”6.
Vedi lo schermo, sia esso materiale o immateriale, come un concetto liminale cruciale, per così dire, che offre un modo di produrre un singolo processo interpretativo, coerente con le esperienze interiori individuali? Se la liminalità è una condizione di confine in cui “qualcosa sta per subire una fase di transizione o sta per trasformarsi in qualcos’altro”7, fino a che punto credi che gli schermi diano la possibilità di mettere in discussione la realtà visibile che ha origine nello scambio reciproco che avviene tra immagine, percezione e interpretazione?
GH: Non lo so… Immagino di aver dato quest’impressione, ma la mia metodologia, se davvero ne ho una, non si cura molto degli schermi e delle immagini o di creare una finestra sul mio mondo interiore, ma piuttosto si concentra sulla cancellazione e l’interruzione del flusso delle immagini, facendole deragliare: qualunque cosa per fermare l’eccesso e/o spostare l’attenzione dello spettatore su un punto inaspettato, fuori dalla cornice. Questo viene fatto principalmente con il suono (testo parlato) e un montaggio radicale del tempo. Ci sono un paio di battute prese da Primarily Speaking (Parlando soprattutto, 1981-83) che mi vengono in mente: “… lascia stare le immagini/ritornano sempre/se non lo fanno ce ne saranno di nuove a rimpiazzare le vecchie/è il loro destino/persino quelle saldamente aggrappate/prima o poi lasceranno la presa/è la natura della bestia…”. Mi concentro non tanto sull’immagine per sé, quanto sul nutrire un evento che sento in procinto di verificarsi, che improvvisamente riceve un impulso che lo spinge a esistere e invariabilmente si evolve diventando intermediale, coinvolgendo il testo/la parola, un qualche genere di intervento da parte del pubblico e magari una situazione di circuito chiuso. Di nuovo, trovo che la liminalità per eccellenza sia incarnata dall’immagine residua di una luce stroboscopica.
HF: Che sia attraverso testi parlati, parole scritte, frasi sussurrate o messaggi subliminali, il tuo lavoro fa spesso riferimento alla materialità del linguaggio, in un modo che ci porta a riflettere sulla sua relazione con la creazione delle immagini. Trovo che nei tuoi lavori il linguaggio raggiunga una dimensione corporale, precisamente nel momento in cui il dialogo poetico, generato nell’ambito dell’interattività e della performatività, si intensifica grazie all’incontro con l’esperienza estetica. Il corpo è una metafora del linguaggio, parte del tentativo di ricostruire l’esperienza come metodo di indagine che connetta idee e principi, invece di procurarci una mera esperienza visiva? Come descriveresti la reciprocità tra immagine e linguaggio nell’intimo dialogo che si verifica quando lo spettatore si relaziona con le narrazioni simboliche, non-lineari e multiple che vengono presentate nel tuo lavoro?
GH: In generale penso che gli artisti e gli scrittori/pensatori siano come due navi che passano nella notte. So che tra gli uni ci sono quelli che fanno l’altro, ma…
Mentre lavoravo a Disturbance (among the jars) (1988), con George Quasha, ho passato un po’ di tempo con Derrida e non riuscivamo a decidere se il Thomas l’obscure di Blanchot avesse qualcosa a che vedere con il Vangelo secondo Tommaso, parte dei Vangeli gnostici. Avevo recentemente finito Incidence of Catastrophe (L’impatto della catastrofe, 1987-88), che è radicato in quel romanzo, e lo mostrai a Derrida. Più avanti, quando gli chiesi un’opinione, ebbe molto poco da dirmi, come se gli fosse entrato da un orecchio e uscito dall’altro. Sono quelli i momenti in cui mi chiedo se le persone siano davvero in grado di capire qualcosa, almeno nel modo in cui vorremmo capissero.
Tornando alla tua domanda…
All’inizio, l’atto di parlare e usare il mio corpo in maniera più diretta mi ha salvato dal vortice delle immagini; dall’essere risucchiato nella superficie e in tutti i luccichii che attirano i tuoi occhi facendoti sentire che hai il controllo di qualcosa che ti sembra essere “lo stato dell’arte”, ma in realtà è tutto uno spettacolo. Ho rotto la superficie a cui ti riferisci attraverso la voce e forse è per questo che il mio uso del linguaggio è sempre stato viscerale. Probabilmente in certi casi l’ho caricato troppo, per esempio nel modo in cui pronuncio le parole in Happenstance (part one of many parts) (Coincidenza - parte prima di molte parti, 1982-83); ha a che fare con il riuscire a entrare nel linguaggio in un modo che sia simile a quello in cui, secondo quanto scrive La Monte Young, si entra in un suono.
HF: SELF ( ) (SÈ ( )), titolo di uno dei tuoi lavori recenti, è molto interessante e curioso e affronta una tematica che è particolarmente topica nei termini del vedere e dell’auto-rappresentazione che oggi sta raggiungendo una nuova rilevanza se pensiamo al numero di ritratti che emergono nel mondo virtuale, canalizzati dall’enorme produzione digitale di fotografia. La nozioni di “sé” e “altro” sono soggetti ricorrenti nel tuo lavoro, il che dimostra il tuo interesse nella percezione del tuo stesso corpo e nel modo in cui produciamo rappresentazioni che combinano attributi fisici, emotivi e mentali. SELF ( ) sembra suggerire una sorta di ritorno dello sguardo che non si piega alle aspettative che abbiamo vedendoci in un selfie; funziona come un’immagine astratta, disturbata e frammentata del ritratto di chi sta guardando. In che modo questa “astrazione autoprodotta” attiva uno “sguardo più completo” su di noi, piuttosto che uno “sguardo vuoto”?
GH: Mi piace l’idea (“ritorno dello sguardo”)… forse è ancor più simile a un flipper, e lo sguardo continua a rimbalzare, tanto che non siamo sicuri di dove atterrerà. L’idea era di fare in modo che gli oggetti somigliassero a degli strumenti medici. Sono sempre un po’ a disagio di fronte a strumenti che di solito sono circondati da un certo grado di sterilità. Per un breve istante non capisci cosa stia succedendo, tutto ciò che sai è che sei sotto osservazione e quello che si vede non è il te a cui sei abituato a pensare, ma sei tu, è la tua faccia per esempio. Quindi c’è un certo grado di disagio, addirittura un po’ di paranoia: chi c’è dietro di me? dov’è quest’occhio? Ma penso che ciò che continua ad affascinarmi di quesa serie è che include anche un certo grado di umorismo, per quanto macabro.
HF: Credo si tratti di un’interpretazione molto soggettiva del vedere ed essere visti che deriva da un’esperienza banale come venire visitati da un dottore mentre si è circondati da strumentazioni mediche per screening fisici. Sembra infatti esserci un ritorno a delle pratiche legate agli schermi di altri tempi e/o altri ambiti, che portano gli artisti a recuperare media passati e presenti, per elaborare nuove modalità di esperienza delle immagini. Sempre più spesso gli artisti stanno ripensando e ridando forma ai dispositivi dotati di schermo, giocando con le loro materialità, texture, superfici e con il loro ruolo nel mondo virtuale, così come con il modo in cui li incontriamo e ci relazioniamo con loro. Pensi che l’arte contemporanea stia lasciando spazio per pensare alle pratiche post-schermo? Una pratica che vada oltre la finestra virtuale; una pratica che analizzi lo schermo come concetto e come dispositivo, come materia e come sostanza; una pratica che richieda un approccio particolare a come vediamo, sentiamo e facciamo esperienza del mondo attraverso gli schermi.
GH: Credo che questo sia ciò su cui sto ragionando con alcuni lavori che hai menzionato (Cornered, Painting with Two Balls, etc.). Ho iniziato dall’idea di proiettare un dipinto nel punto in cui il tronco del solido creato dalla luce proiettata definisce la forma che supporta il dipinto. Ma per me ha senso solo se le opere fanno parte di un circuito chiuso e sono, per così dire, “in diretta” (potrebbero venire definite dipinti cibernetici) in modo che lo spettatore possa vedersi mentre guarda e allo stesso tempo resti immerso nell’atto di cambiare la superficie del “dipinto”.
Sono consapevole del continuo sviluppo tecnologico di schermi e proiezioni, tra cui la più interessante è forse quella di un materiale per display flessibile, che un giorno potrebbe essere indossato come un abito, per esempio, e sono ancora molto attirato dalle fonti di luce primitive e crude. C’è qualcosa in un lampo di luce che riporta alle origini, somiglia ai neuroni che si accendono mentre viene formulato il linguaggio.
- George Quasha e Charles Stein, “Projection: The space of great happening”, in Robert C. Morgan, Gary Hill (Art + Performance). Baltimora: The John Hopkins University Press, 2000, p. 153.
- Sigla per schermi a tubo catodico (Cathode Ray Tube).
- Estratto da Processual Video (1980)”
- Gary Hill, “Inasmuch as it has already taken place”, Gary Hill. Ripreso da http://garyhill.com/work/inasmuch-as-it-has-already-taken-place.html. Ultimo accesso 1 settembre 2016.
- Gary Hill, “Tall Ships”, Gary Hill. Retrieved from http://garyhill.com/work/ tall-ships.html. Accessed September 1, 2016.
- Kate Mondloch, Screens: Viewing Media Installation Art. Minneapolis, Londra: University of Minnesota Press, 2010, p. 4.
- George Quasha e Charles Stein, “HanD HearD/liminal objects”, in Robert C. Morgan, Gary Hill (Art + Performance). Baltimore, Md: John Hopkins University Press, 2000, p. 126.