Berlinde De Bruyckere
(Ghent 1964)

Aanéén - Genaaid, 2001
cera, poliestere, coperta

Collezione E. Righi 

We Are All Flesh
, 2009-2010 
cera, epossidico, ferro e legno

Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana 

L’opera Aanéén-Genaaid (il cui titolo significa in olandese “cucito insieme” e “rimontato”) presenta congiunti due dei temi fondamentali della poetica dell’artista fiamminga: dettagliate anatomie umane dalle carni livide, spesso acefale o mutile, e la coperta cucita addosso - con un rimando ai lavori di Louise Bourgeois - con cui il corpo-individuo si cela, quasi a proteggersi dalle sue menomazioni fisiche ed esistenziali.  

Il titolo di questo lavoro, We Are All Flesh, è lo stesso di un libro d’artista in cui compaiono immagini delle opere di
 De Bruyckere, intere o in dettaglio, con accanto brevi racconti o annotazioni dello scrittore premio Nobel sudafricano J.M. Coetzee. In collaborazione con lo scrittore l’artista fiamminga ha concepito nel 2013 la monumentale installazione Kreupelhout  Cripplewood, con cui ha rappresentato il Belgio alla 55a Biennale di Venezia. In quell’opera una scultura dalla forma di un olmo abbattuto, ricoperto di radici e rami, si mutava nella carne ferita di S. Sebastiano martire, icona scelta per rappresentare la continua agonia e la tenace sopravvivenza della città lagunare. 
Contenuti speciali

Berlinde De Bruyckere: La conoscenza delle sculture
di K. Ludwig Pfeiffer

La forma di una conoscenza silenziosa

Ciò che l’umanità conosce di sé stessa deve essere chiarito attraverso la scienza, ma ha anche bisogno dell’illuminazione che si raggiunge tramite le arti. L’illuminazione raggiunta attraverso l’arte riguarda spesso quelle questioni che, diversamente, sarebbero costrette a sopravvivere a stento conducendo la loro esistenza nell’ombra di una conoscenza silenziosa. Nella conoscenza silenziosa possiamo includere molto più di quanto generalmente percepiamo (abilità ordinarie, competenze, consapevolezza, certezza sensibile, occhio clinico, etc.) e tale comprensione delle cose, anche  da un punto di vista scientifico, è molto più importante di quanto crediamo. Le forme d’arte silenziose nel senso più letterale del termine, come la scultura, potrebbero in particolare rivelare che questo silenzio non deve essere espressamente rotto, perché, come accade nel caso di Berlinde De Bruyckere, è in grado di raggiungere, attraverso la materialità, una specifica forma che è non solo vivida, ma anche immutabile.

E c’è di più. Seguiamo per un momento la classificazione approssimativa che Arnold Gehlen ha fatto dell’arte occidentale: inizialmente c’è un’arte che visualizza le idee (rappresentando scene bibliche, miti o eventi storicamente e simbolicamente importanti del medioevo); poi, l’arte realistica (la conquista “borghese” del mondo reale); e, in ultimo, l’arte moderna astratta. Poiché la maggior parte degli oggetti rappresentabili sono stati consumati, per non dire esauriti, da un uso eccessivo e dalla pubblicità messi in opera dall’espansione borghese-capitalista, l’arte moderna si concentra sulle procedure, non sulla raffigurazione; codifica gli oggetti, trasformandosi di conseguenza in una forma di riflessione tacita e indiretta. Si presenta come un “bisogno di ricevere commenti” che deve venire soddisfatto dalla scena artistica.1

Disordini tra corpo e anima

Berlinde De Bruyckere chiede e offre di più. Offre oggetti, e fa in modo che questi siano molto potenti, capaci di infastidire il bisogno di riflessione e interpretazione del pubblico o addirittura di bloccarlo, gravitando nel mentre verso la teoria o quantomeno verso una qualche introspezione diagnostica. Prima di tutto è necessario concentrarsi su una caratteristica centrale spesso visibile in questa tipologia di scultura, così da stabilirne l’importanza critica: le figure piegate e distorte di umani e animali in posizioni assemblate alla rinfusa. Tenendo a mente il noto modello occidentale di pensiero sul corpo e l’inevitabile, se non ovvia, correlazione tra movimento spirituale e manifestazione fisica, si deve poi fare riferimento al saggio di Kleist sul teatro dei burattini. Kleist sostiene che, dal momento in cui abbiamo mangiato dall’albero della conoscenza, il paradiso è stato “sbarrato”. Il movimento umano dimostra che l’anima, intesa come principio originario del movimento, il vero motore del movimento fisico-emotivo degli esseri umani (“vis motrix”), non è più collegata con i movimenti umani abituali. Ci muoviamo come se la nostra anima avesse preso posto nella “vertebra alla base della schiena” o addirittura nel gomito o in qualche altro posto. Di conseguenza con gli umani c’è una forte ed inevitabile connessione tra il movimento del corpo e quello emotivo. Questo collegamento però, non può essere formulato come una struttura ordinante trasparente o comprensibile, ma al massimo come uno spazio diffuso di diversità che è spesso minacciato da conflitti o dolore. Ovviamente le figure dell’artista non si stanno effettivamente muovendo, ma il movimento che le ha portate nella loro penosa posizione è in qualche modo ricostruibile. Le figure creano quindi un “mondo lento e solido” (Beckett). De Bruyckere stessa, in un’intervista a proposito di We are all Flesh, la sua mostra del 2012 all’Australian Centre for Contemporary Art, parla della pesantezza dei corni nelle sue sculture intitolate Actaeon (Atteone) e anche del fatto che alcuni spettatori trovino il suo lavoro, in generale, troppo pesante.2

Questo mondo ci permetterà a malapena di evitare l’idea che la deformazione, la distorsione, il venire-assemblati-alla-rinfusa, un disordine tra corpo, anima - che oggi comunque si può solo chiamare “psicologico” - e senso del movimento non siano solo dei disallineamenti risolvibili, ma siano diventati una seconda natura. Allargarsi per includere sculture di animali suggerisce il fatto che oggi possiamo percepire tutte le forme di vita soltanto come una nostra disfunzionale seconda natura. Avendo studiato i corpi dei cavalli - che vengono spesso appesi al soffitto - per più di dodici anni, l’artista sostiene in un’intervista che rappresentino le emozioni umane.

Naturalmente le sculture di De Bruyckere non si esprimono sulle nostre possibilità di tornare in noi o ritrovare il nostro senno, in questo mondo così frenetico e al contempo rallentato in modo frustrante da tutte quelle perturbazioni che lo rendono pigro e pesante. Coming to Our Senses (Tornare in noi) è anche il titolo di un libro di Morris Berman che si concentra sulla “storia nascosta del corpo e dello spirito nell’occidente”.3 L’amore spirituale della cristianità che porterà, nel tempo, a uno stato di privilegio generalizzato, specialmente in sette come quella dei Catari, la divisione fatta da Cartesio in res cogitans e res extensa e la meccanizzazione industriale, vengono prese in considerazione da Berman in quanto forze trascinanti fondamentali, responsabili della divisione di quelle dimensioni umane che dovrebbero in realtà essere intimamente connesse.

Mondi fisici interiori complessi — il corpo alieno nella sua interezza

Berman fa anche notare come la parola inglese ‘meat’ che indica la carne ‘trattata’ meccanicamente, sia un termine in uso dal XX secolo. (Comunque siamo anche autorizzati, guardando le sue opera, a tenere presente - con grande attenzione - il fatto che l’artista sia figlia di un macellaio). Questo ci porta ad un altro punto centrale del mondo di De Bruyckere. La figura gigantesca, disturbata nella sua capacità di creare riferimenti e corrispondenze, lotta con un mondo fisico interiore che è anche spesso strutturato dall’artista in maniera non sempre coerente. Non sappiamo molto del mondo interiore dei nostri corpi, se non che è fragile e più o meno al di fuori del nostro controllo. La medicina moderna è occupata a minimizzare l’entità delle sue ‘intrusioni’ che imputa all’oscura complessità e alla mancanza di controllo sul mondo interiore del corpo. Gli atlanti di anatomia come  Color Atlas of Anatomy (Atlante a colori di anatomia) di J. W. Rohen e Chihiro Yokochi4 o anche i progetti di plastinazione di Gunther Von Hagens tentano di eliminare questa mancanza di trasparenza tramite la rappresentazione di specifici sistemi circolatori del corpo con grafiche colorate o modelli, come nei ‘mondi del corpo’ di von Hangens (correttamente declinati al plurale). Comunque, ciò che sembra essere così vicino alla realtà, arriva rapidamente a un punto di stallo: non riesce a comporre il singolo corpo che vorremmo sentire di essere. Le specifiche funzionali - che forse potrebbero essere comprensibili anche agli inesperti - dei mondi più grandi, ma anche di quelli più piccoli e anche dei più minuscoli e parziali in assoluto, finiscono con il dirci poco o niente sulla comprensione del tutto. Berlinde De Bruyckere ci lascia con l’idea di una vaga totalità fisica, la scala della cui esistenza non può essere ignorata. Sposta questa totalità nell’ambito dell’incontrollabile, cosa che potrebbe intimidire alcuni spettatori. Si potrebbe in qualche modo gestire guardandola come si farebbe con un’illustrazione della formula dell’antropologia filosofica di Helmuth Plessner: io sono (percepisco e sento me stesso come) un corpo, ma ho anche un altro corpo fisicamente indistinguibile dal corpo percepito, la cui natura mi è estranea. Nel lavoro di De Bruyckere, alcune figure che sono state riassunte con il titolo The Mystery of the Body (Il mistero del corpo) si impongono, aumentando così il senso di alienazione: sembrano ingrandimenti frammentati di organi o parti funzionali (tendini, muscoli, intestini). Altre sono a malapena distinguibili, come per esempio le sculture Actaeon, da dei frammenti di corna. In altre ancora si ha la sensazione di riconoscere della carne scuoiata, di stare guardando attraverso le arterie o aver intercettato delle ferite aperte. Nella serie Inside me (Dentro di me, 2008-2011) però, i mondi interni al corpo rimangono vuoti. Nel senso letterale della parola, potrebbe voler dire che il corpo sia stato trattato come “carne macellata” e sia già stato “eviscerato”. Metaforicamente potrebbe essere vuoto perché non c’è molto da dire sul corpo interiore, nonostante tutta la pressione che questo mette su di noi.

La natura particolare dei sentimenti umani

Guardando alle vecchie installazioni di De Bruyckere, i corpi distorti dei cavalli sul campo di battaglia (In Flanders Fields - Sui campi delle Fiandre, 1999/2000 che è anche il titolo di una famosa poesia del canadese John McCrae, scritta nel 1915 durante la seconda battaglia delle Fiandre vicino a Ypres che segnò l’inizio delle guerre chimiche) o sculture come Schmerzensmann (Uomo dei dolori), il risultato dei suoi studi su Lucas Cranach (o l’artista stessa definita in un articolo sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 12 aprile 2011, in modo accondiscendente e improprio, come ‘la donna dei dolori di Ghent’, intendendo Berlinde De Bruyckere stessa) per esempio, si potrebbe trarre la conclusione che queste strategie di rappresentazione servano a ricordarci la consistenza delle nostre emozioni autentiche, in particolare la sofferenza che, nella vita di tutti i giorni, si presenta solamente in maniera diluita o stereotipata. Non si può in alcun modo mettere in discussione il fatto che l’arte giochi un ruolo fondamentale nella visualizzazione dei sentimenti, poiché sappiamo molto meno sulle qualità specifiche delle nostre emozioni di quanto crediamo. Presumiamo di avere assoluta comprensione di queste cose perché il linguaggio ci offre alcune parole per definire i nostri stati emotivi in determinate situazioni sociali. Il terapista del corpo Moshe Feldenkrais sostenne che sappiamo più cose sul movimento che sull’amore, la rabbia, l’invidia o anche solo lo stesso atto di pensare. Nei suoi libri sulla priorità delle emozioni (Sento quindi sono) e su Spinoza, il neuroscienziato Antonio R. Damasio assimila la maggior parte delle emozioni che sentiamo più personali, alle emozioni secondarie e sociali che sono codificate linguisticamente e socialmente e strutturate per situazioni sociali determinate (imbarazzo, gelosia, colpa, orgoglio etc. Damasio identifica anche sei emozioni primarie o universali: gioia, dolore, paura, rabbia, sorpresa, disgusto e alcune emozioni di sottofondo come le sensazioni di agio, malessere, tranquillità, tensione). Comunque sia, una dinamica organica-fisiologica pervade le nostre emozioni senza lasciarci la possibilità di connettere queste due aree tramite correlazioni dirette. L’immagine che Damasio crea del corpo come “teatro” delle emozioni, del panorama del corpo e del cervello che viene cambiato in senso profondo dalle emozioni, anche se fondamentalmente corretto, in realtà copre le falle che i ricercatori del cervello non sono comunque riusciti a superare, e che probabilmente non supereranno mai, nel cercare di definire le interrelazioni tra processi fisiologici chimici nel cervello e stati di coscienza che vengono effettivamente sentiti in termini emotivi o in altri modi.

Le arti devono quindi trovare un modo più attraente - qualcuno potrebbe definirla una forma più autentica - per creare emozioni in maniera quasi artificiale o in una sorta di situazione sperimentale. Questo vincolo non è solo applicato alle arti antiche; il cinema, per esempio, usa forme irrealistiche come i primi piani o la slow motion senza farsi troppi problemi, nonostante entrambi non facciano parte della nostra normale percezione, al fine di veicolare qualità emotive e renderle concepibili. In alcuni dei suoi film incentrati sulle guerre feudali (Kagemusha, Ran) il regista giapponese Akira Kurosawa mostra la morte dei cavalli sul campo di battaglia al rallentatore, un’immagine che ricorda In Flanders Fields di De Bruyckere. In ogni caso, non bisogna commettere lo stesso errore fatto da Lessing che, parlando della scultura nel suo saggio sul Laocoonte, riconosce nella pittura, oltre che nella poesia, il suo punto focale principale, dimenticando nel mentre il suo obiettivo originale: una critica al modo in cui Winckelmann interpreta il dolore nel Gruppo del Laocoonte. Non bisogna dimenticare però che  nel suo libro Laocoonte del 2002 Imke Kreiser, tra gli altri, cercò di creare una connessione tra i diversi effetti dell’arte basandosi sulla neurobiologia; specialmente considerando che De Bruyckere insiste su questa vicinanza volendo connettere le sue sculture con i dipinti di Lucas Cranach o Luca Giordano o con i film di Pasolini.

Relazioni con il corpo - relazioni con gli oggetti

Non si è ancora certi del fatto che l’obiettivo principale delle sculture sia in realtà l’illustrazione della brevità emotiva. Se così fosse, sarebbe proprio il peso fisico delle sculture a fermare le emozioni in un punto preciso nell’arco di uno spazio temporale infinito, contraddicendo quindi il loro carattere dinamico, versatile e mutevole. È facile soprassedere o rifiutare il fatto che la maggior parte delle figure costruite da Berlinde De Bruiyckere - sia animali che umane - creino una relazione fisica con gli oggetti tramite il loro posizionamento: siedono o sono sdraiate su di essi, di solito allungandovisi; sono appese a o rinchiuse in essi.

Naturalmente lo notiamo di più quando le figure sono appese, come per esempio nella scultura Lingam (un simbolo induista che rappresenta l’energia, da quella divina a quella sessuale), dove due figure copulano sembrando, a causa della loro posizione sospesa, due pupazzi telecomandati appesi a un filo.

Ma la nostra percezione dovrebbe accendersi anche per sculture come We are all Flesh II (Siamo tutti carne II), una pietà fatta di cera, o per Romeu (2010) e per altre figure doppie che copulano come in Lingam. Qui le figure sono sedute, o piuttosto adagiate (entrambi i verbi non definiscono correttamente le circostanze) su una sorta di copriletto che è esso stesso aperto su una specie di costruzione. Nelle composizioni doppie entrambe le figure fungono da oggetto per l’altra. Nel caso di We are alla Flesh II, una figura si raccoglie - o dovremmo dire si accovaccia o accoccola? - sul copriletto. La pietà si sdraia - non si capisce se in maniera rilassata perché è priva di lineamenti - con la schiena quasi completamente distesa. In Romeu, la schiena risulta quasi schiacciata dalla costruzione; vista di lato, la figura sembra scivolare dal profilo della struttura mentre cerca di usare la tensione del corpo per tenere sotto controllo il pericolo. C’è una domanda culturale e psicologica che è la chiave nascosta in queste descrizioni esitanti. De Bruyckere la suggerisce nell’intervista citata precedentemente, quando parla di come (nel primo caso) le figure quasi svaniscano nel copriletto, vorrebbero incorporarlo, renderlo parte del proprio corpo come farebbe un bimbo piccolo. Questi lavori offrono una silenziosa e proprio per questo efficace immagine estetica del “pensare fino in fondo” alle relazioni “occidentali” con gli oggetti come ha fatto, con un punto di vista forse allarmante, lo psicologo infantile inglese Donald W. Winnicott. Secondo Winnicott6, “il comportamento di incorporazione nell’unità-ambientale-corporale del singolo che è ben noto e caratteristico nei bambini, deve essere risolto con l’aiuto di oggetti di transizione presi da aree intermedie di esperienza, se non si vuole prevenire o rendere molto complesso lo sviluppo del bambino in adulto”. Qui Winnicott si riferisce alla relazione con gli oggetti (i famigerati orsetti di peluche e le bambole) che in certi situazioni vengono percepiti dai bambini sia come parte del proprio corpo, sia come come oggetti veri e propri. Al contempo non possono però essere completamente ascritti all'illusionale mondo di unità ontologica del bambino e nemmeno alla convenzionale distinzione tra soggetto e oggetto dell’adulto.  Una vita di successi, forse anche la vitalità ottimista di un’intera cultura, è dipendente da come gli oggetti di transizione bambineschi possano venire sostituiti da oggetti socialmente accettati e da attività per adulti. Ancora oggi in alcune culture si riesce ad assorbire almeno parte di questo problema tramite rituali o cerimonie. Altre culture sembrano riuscire a trasferire le relazioni libidinose avute con il corpo della madre e con gli oggetti di transizione dei bambini su vari altri oggetti, anche quotidiani. Incontriamo il terzo tipo avvicinandoci al sistema “occidentale” che noi stessi spesso consideriamo problematico e che sostituisce l’attaccamento libidinoso o sacro agli oggetti con la creazione di un feticismo su larga scala. L’occidente è legato principalmente al credo nella creazione cristiana e non realmente fede nella forza interiore dei legami che, scaturiti da un’intima relazione madre-figli, si vanno a creare con ogni genere di oggetto. Gli oggetti che una volta venivano creati da Dio possono quindi perdere velocemente il loro valore “intrinseco” a causa della distanza acquisita insieme alle condizioni capitaliste, perdendosi nell’ambito degli oggetti arbitrariamente intercambiabili.

Ovviamente, nessuno deve lasciare che la propria percezione del lavoro di De Bruyckere venga forzata nella morsa di queste teorie. Ciò detto, la ricezione di De Bruyckere e la sua storia fino a questo momento provano, in modo evidente, l’estensione dei disturbi (mentali) che l’intervento artistico comporta in ciò che sembra una solida concretezza o una materialità corporale. L’artista non ha evidentemente creato alcuna allegoria, come facevano le strutture di testo-immagine del Medioevo (e non solo) o una struttura, sia parte che tutto, a cui si sarebbero dovuti ascrivere significati, per esempio morali. Una discendente dell’allegoria è però la teoria e non si fa alcun male sostituendo, talvolta, il proprio pregiudizio con quello della teoria, specialmente quando si presenta un’opportunità del genere.

“Atteone, figlio di Aristeo e Autonoe (figlia di Re Cadmo), era uno dei più famosi eroi di Tebe, poiché era stato allevato ed educato dal centauro Chirone. La morte di questo famoso cacciatore ha ispirato numerose e belle opere poetiche. Il mito può essere riassunto come segue. Un giorno Diana stava facendo il bagno con le sue ninfe nella selva Gargafia, dove A. stava cacciando. Attirato dalla visione della dea, si fermò. Diana si arrabbiò al punto da trasformarlo in un cervo a cui non restò nulla di umano, se non la cosa peggiore da mantenere in tale situazione: la coscienza. A. scappò, ma i suoi velocissimi cani lo inseguirono su per il Monte Citerone dove lo ridussero letteralmente a brandelli. Iniziarono poi a cercare il loro padrone per tutta la foresta, finché Chirone non riprodusse la sua immagine per consolarli. Un’altra versione leggermente diversa del mito: Diana non voleva punirlo solo per la sua curiosità, ma per la scandalosa impertinenza di un mortale che avrebbe voluto usare la forza contro di lei. Secondo un’altra versione ancora: si dice che Diana lo abbia trasformato e fatto inseguire fino alla morte perché non ottenesse Samele, che desiderava avere in sposa”. 

 

  1. Arnold Gehlen: Zeit- Bilder. Zur Soziologie undAsthetik der moder- nen Malerei. Frankfurt a. M./Bonn 1960.
  2. http://www.com/watch?v=ffzINEejOsO
  3. Morris Berman: Coming to Our Senses. Body and spirit in the hidden history of the West. New York 1989.
  4. W. Rohen, Chihiro Yokochi: Color Atlas of Anatomy. 3rd ed. New York, Tokyo, Stuttgart 1993.
  5. Imke Kreiser: Laokoon im 21. Jahrhundert oder die Neurobiologie der Asthetik. Bochum 2002.
  6. Donald W. Winnicott: Playing and Reality. Londra 1971.