Heidi Bucher
(Winterthur 1926 - Brunnen 1993)

The Hatching of the Parquet Dragonfly, 1983 
sottoveste, latex e pigmeto madreperlato 

The Estate of Heidi Bucher  

Interessata alla spazialità del corpo e alla sua relazione temporale con l’architettura, Heidi Bucher ha sviluppato una pratica iconica per il suo lavoro basata sul calco di oggetti e di elementi architettonici. Usando una miscela di lattice e madreperla, in The Hatching of the Parquet Dragonfly l’artista ha creato una superficie tattile simile alla pelle sia nel colore sia nella trama. Una volta diseccata questa miscela l’artista ha scuoiato le superfici che aveva ricoperto con un significativo sforzo fisico, che evidenzia la natura performativa del suo lavoro. Nell’uso di materiali vulnerabili e fragili emerge il suo interesse per la transitorietà, la trasformazione e la metamorfosi. Il lattice, infatti, si degrada con il tempo e attraverso il suo lento decadimento avvicina l’opera alla natura impermanente del corpo. 
Contenuti speciali

Heidi Bucher: Spezzare La Linea
di Liv Cuniberti

Da Heidi Bucher, Skira, Milano 2019 


L’analisi degli spazi architettonici compiuta da Heidi Bucher, estrema e pioneristica, ha abbracciato la sua intera pratica artistica, dai primi disegni di architetture e collage su seta degli anni Cinquanta alle sue più note serie di skinnings (“scuoiamenti”) dell’inizio degli anni Settanta, e fino ad arrivare alla sua morte prematura nel 1993. Il disegno di una chiesa eseguito nel 1952, ad esempio, mostra una particolare attenzione verso l’intreccio delle assi del pavimento in parquet, elemento che riapparirà nei sui futuri skinnings in lattice. Bucher catturava l’immagine di edifici storici o abbandonati attraverso un processo di stratificazione che avveniva con l’utilizzo di lattice fuso e garze; questo procedimento risultava in uno stampo della struttura architettonica e delle sue caratteristiche, ma anche degli oggetti domestici che si trovavano all’interno dello spazio. Bucher era interessata ai luoghi che erano carichi di sentimenti legati ai suoi primi anni di vita, ad esempio lo studio nella casa dei suoi genitori, Herrenzimmer (1977-1979), oppure la casa dei suoi avi, Ahnenhaus (1980-1982). Attiravano la sua attenzione anche edifici significativi da un punto di vista spirituale, come la chiesa sulla 21esima strada a New York (dove ha lavorato nel 1979-1980)1 e il Bellevue Sanatorium a Kreuzkingen (“scuoiato” da lei nel 1988). L’azione del rimuovere il lattice, fisicamente molto faticosa e fortemente performativa, ha permesso la creazione di una serie di stampi allo stesso tempo delicati e inquietanti, viscerali, repliche dello spazio fisico ma carichi di significati psicologici.  

All’inizio degli anni Settanta, dopo aver trascorso quasi due anni in Canada, Bucher si spostò con la sua famiglia a Los Angeles, un luogo che si rivelerà estremamente formativo per l’artista. Durante questo periodo diventò amica di Edward Kienholz (1927-1994), artista americano che incarnava l’ideale di stile della costa occidentale degli Stati Uniti negli anni Sessanta e Settanta, che prediligeva l’uso di materiali non tradizionali e mutevoli, l’opposto delle finiture eleganti e raffinate preferite dai suoi colleghi sulla costa orientale2. Kienholz ha avuto un profondo impatto sull’approccio di Bucher verso un uso non convenzionale dei materiali nella sua pratica artistica; l’artista statunitense infatti usava oggetti trovati in discariche o mercatini delle pulci, attingendo dal ventre molle della cultura americana e spesso sfociando nel macabro e nel sinistro. Alcune di queste caratteristiche si possono ritrovare anche nelle fotografie d’archivio relative alla serie Borg di Bucher, della seconda metà degli anni Settanta: queste immagini mostrano il procedimento di creazione degli skinnings come qualcosa di torbido e appiccicoso, che quasi allude ai fluidi corporei. Una serie di intime fotografie scattate nel 1970 dalla moglie di Kienholz, Nancy Reddin, cattura la stretta collaborazione tra Bucher e Kienholz (Fig. 37).  

Il lavoro di Bucher tratta tematiche legate alla memoria, alla trasformazione e alla documentazione, ma un’analisi formale rivela un dialogo con il Minimalismo (e una sua sovversione), e in particolar modo con le sue linee perpendicolari. Tali linee, che formano un quadrato o un reticolo, sono state l’elemento che ha maggiormente contraddistinto il Minimalismo dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, caratterizzato da angoli rigorosi, serialità e altri procedimenti convenzionali. Si preferivano linee pulite, prive di decorazione, e un’austera sobrietà, mentre le linee geometriche e le forme rettilinee si svuotavano completamente della presenza dell’artista. I concetti chiave di queste opere si possono ritrovare nelle sculture di Donald Judd, scatole industriali rigorosamente neutre, nei dipinti geometrici di Frank Stella, nei reticoli delle sculture appoggiate al pavimento di Carl Andre, nei disegni murali sistematici di Sol LeWitt e nella gestualità ripetuta dei dipinti a griglia di Agnes Martin. I Minimalisti esploravano le infinite possibilità legate all’uso del quadrato e delle sue 47 linee perpendicolari, rifiutando completamente la rappresentazione di una realtà esterna. Il coinvolgimento di Bucher con il formato del reticolo è chiaro: lavora con linee che sono intrinseche nelle strutture fisiche e concettuali che circondano la quotidianità e le sovverte attraverso le sue opere ricche e tattili; questa risposta è evidente in particolare negli stampi del parquet della Herrenzimmer, come nel pavimento e nelle pareti ricoperte di piastrelle del Borg (Fig. 39)3 

Bucher ha fatto proprio il linguaggio minimalista utilizzando il formato della griglia che ritrovava nelle forme geometriche all’interno delle architetture prescelte. Durante il processo di preparazione necessario per realizzare uno skinning, l’artista divideva le diverse aree della stanza in sezioni delineate con precisione; successivamente selezionava le parti delle forme geometriche da catturare nel suo stampo, come nel caso dell’Herrenzimmer, o le superfici piastrellate, come nel Borg. Ma l’azione sovversiva di Bucher si ritrova nella maniera in cui le linee perpendicolari delle opere svaniscono quando giungono ai loro bordi lacerati, e nelle imperfezioni che vengono catturate sulla superficie del lattice come residui di tracce umane. Nonostante riproducano fedelmente le forme geometriche e lineari del parquet e del pavimento piastrellato, i lavori di Bucher rifiutano la geometria pura e la razionalità esaltata dai minimalisti; pertanto, a differenza delle scatole di Judd che si estendono nello spazio o delle opere di Andre che agiscono come uno strato aggiuntivo del pavimento, gli skinnings di Bucher si possono concepire come lavori che svaniscono nello spazio. In un certo modo, nell’utilizzo che Bucher fa della geometria si ritrova un’ossatura o una reminiscenza della griglia minimalista.  

Il materiale preferito dall’artista, il lattice, è il mezzo impermanente utilizzato per tradurre lo spazio in una traccia permanente e, catturando i più piccoli dettagli, rivela le imperfezioni, in una satira dei materiali industriali usati dai Minimalisti. La griglia di Bucher è travolta da una presenza fortemente fisica e performativa, che mostra una sofisticata combinazione tra la sfera analitica e quella emotiva. Il lattice registra sulla sua superficie l’inevitabile presenza del corpo umano e rivela graffi e impronte digitali; attraverso questo procedimento Bucher esprime in maniera sottile un suo commento sull’aspetto sterile di materiali come cemento o metalli. Le sue opere esaltano e manipolano il reticolo attraverso l’uso di quella tangibilità e tridimensionalità che il Minimalismo cercava di eliminare. Gli skinnings, essiccati e rugosi, catturano i ricordi e la transitorietà: gli strati ruvidi e variegati delle sue trapunte e dei suoi grembiuli, ad esempio, richiamano e riflettono l’identità multisensoriale di tali oggetti, la quale per l’artista si collega direttamente alla consapevolezza umana della funzione fenomenologica della pelle e della sua capacità di registrare su di sé il passare del tempo. Il deteriorarsi del lattice che, nonostante la sua elasticità iniziale, diventa progressivamente più scuro e grinzoso con il tempo, sembra imitare l’usura e il deterioramento della pelle umana, la quale a sua volta, nonostante sia una protezione per gli organi interni, invecchia, viene segnata e si logora4. In aggiunta, il concetto di temporalità e di trasformazione materiale è un elemento centrale del lavoro dell’artista, per la quale lo spazio era in uno stato di mutazione continua. Inoltre, il ricorrere di elementi legati all’acqua, come pesci e libellule, mostra che i temi delle opere di Bucher sono strettamente collegati alla metamorfosi e alla transizione. La libellula passa la maggior parte della sua vita in uno stato larvale, per poi trascorrere solo pochi giorni volando. La sua pelle dopo la muta diventa quindi la reliquia di un tempo precedente, una metafora per la liberazione dal passato.  

I lavori di Bucher mostrano un’attenzione verso l’idea che l’architettura possa funzionare come una membrana vivente, come una seconda pelle. L’artista conosceva gli scritti dell’architetto tedesco Gottfried Semper (1803-1879), il quale aveva teorizzato che l’origine dell’architettura risiedesse nella tessitura5. Le strutture architettoniche sono composte da parti metodicamente interconnesse e, analogamente alla tessitura, presentano dei motivi a griglia al loro interno; non stupisce quindi che Bucher trovasse dei collegamenti tra le composizioni architettoniche degli skinnings e gli stampi delle sue trapunte. La combinazione di architettura, tessuti e pelle nella produzione di Bucher si ispira alle teorie di Semper6, a cui ha anche fatto esplicito riferimento sfoggiando gli skinnings delle stanze della casa della sua famiglia (Figg. 41-42) a Winterthur e davanti al municipio, realizzato dallo stesso Semper (1865-1870).  

I, and by that I really mean we, all women, have a quite primeval relationship to textiles. You see, we’ve made it all ourselves... We’re constantly dealing with fabrics. They surround us, envelop us, they’re our skin7. 
(Io, o per meglio dire noi, tutte le donne, abbiamo un rapporto primordiale con i tessuti. E l’abbiamo creato da sole... Abbiamo sempre a che fare con i tessuti: ci circondano, ci avvolgono, sono la nostra pelle.)  

Dopo la sua morte, il lavoro di Bucher è stato quasi totalmente dimenticato fino al 2004, anno in cui il Migros Museum of Contemporary Art di Zurigo ha tenuto una mostra personale su di lei. Questo anonimato era forse in parte dovuto alla natura fragile e mutabile del lattice. Se da un lato una rivalutazione dell’opera di Bucher è ormai necessaria, è al contempo fondamentale non limitare la sua pratica all’interno di un discorso di genere. L’arte di Bucher è spesso stata descritta da una prospettiva che si limitava a concentrarsi sulle sue tinte delicate e sui materiali eterei ed ermetici che impiegava8. Scritti più recenti hanno anche sottolineato l’importanza del simbolismo legato ai tessuti utilizzati, come i grembiuli e le trapunte; se da un lato sono elementi che richiamano certamente alla sfera domestica, dall’altro è molto importante evidenziare che questi oggetti hanno la caratteristica di essere stati a stretto contatto con la pelle. Anche le trapunte, come la maggior parte dei lavori di Bucher, vanno intese come elementi che racchiudono una presenza corporale; grazie all’alchimia dell’artista, vengono convertite in oggetti geometrici; non sono piatte e decorate a motivi rigorosi come l’oggetto originale: i tessuti ricalcati assumono l’aspetto di opere voluttuose, caratterizzate da volume, profondità, e una struttura che sfida la bidimensionalità delle forme originali.  

A inizio anni Novanta Bucher aveva ormai sviluppato e perfezionato la sua tecnica di stratificazione di lattice e altri materiali per tracciare le storie di edifici e di interni. Un altro elemento che appare di frequente è la sensuale madreperla, applicata sulla superficie del lavoro, quasi come una firma, che crea un effetto tridimensionale in contrasto con le rigide scanalature che definiscono molte sue opere. Allo stesso tempo anche le sue performance, relative alla creazione dei lavori ma anche all’uso quotidiano degli oggetti rappresentati, contribuiscono alla definizione dell’esclusivo linguaggio visivo dell’artista. Bucher inebria il suo pubblico con la sua rappresentazione, estremamente violenta eppure poetica, della permanenza e della temporalità, e conferisce agli oggetti la capacità di registrare e accumulare i segni del passare del tempo. Unendo architettura, pelle e corpo, l’artista trasmette, preserva e riattiva i ricordi tramite i suoi lavori in lattice, i quali attingono a una lettura della psicanalisi che interpreta la pelle come una metafora della psiche umana.  

Bucher si è opposta alle tematiche e al clima artistico presentato dai suoi contemporanei, in particolare all’idea di una domesticità legata al genere, e al movimento, di dominazione maschile, noto come Minimalismo. A suo modo, questa donna svizzera, che ha vissuto a Zurigo, New York, Los Angeles, ma anche in Canada e a Lanzarote, ha osservato attentamente le strutture, concrete e concettuali; le ha preservate nel lattice, e attraverso l’uso del lattice stesso le ha letteralmente rase al suolo, strappandole alla loro funzione. Si potrebbe vedere il suo lavoro come un’alternanza di costruzione, decostruzione e ricostruzione della sua identità, riflettendo il suo passaggio da figlia a moglie a madre, per arrivare infine a quello che lei stessa concepiva e che possiamo vedere ora: un’artista. Per diventare artista Bucher ha dovuto distruggere l’ambiente circostante per poi farlo proprio, indossandolo come un mantello o realizzandone frammenti che appendeva intorno a lei come pegni. La sicurezza e la dedizione irremovibile con le quali ha portato avanti la sua analisi, mai rifuggendo la sfera personale e con risultati spesso potenti e inaspettati, sono gli elementi che la fanno entrare a pieno titolo tra i grandi artisti della seconda metà del ventesimo secolo.  

 

  1. Documentata da HansNamuth
  2. Non è chiaro quali altri artisti di questo gruppoBucherconoscesse al tem- po, ma è probabile che sia venuta in contatto con il loro lavoro in California oppure a New York.  
  3. Lo studio diBucherquando tornò a Zurigo nel 1973.  
  4. SigmudFreud ha studiato la pelle da un punto di vista psicanalitico e ha posto le basi per una teoria che vede l’esperienza del tatto come essenziale per la formazione della persona. Uno dei numerosi esempi di lavori di Bucher che fanno riferimento alla psicanalisi la vede avvolgersi giocosamente ne- gli skinnings del Bellevue Sanatorium. Proprietaria di questo sanatorio era la famiglia Binswanger, che era molto coinvolta negli sviluppi della psicanalisi, tanto che Sigmund Freud era amico del direttore. I calchi che Bucher fece del Bellevue rappresentano un doppio esorcismo: dei fantasmi della storia dell’arte e della psicanalisi. L’artista ha realizzato lo stampo di diverse stan- ze del Sanatorium e dei bagni del reparto psichiatrico, una stanza circolare piastrellata con una vasca centrale con diversi strumenti. Un film di Michael Koechlin del 1990 mostra Bucher nel procedimento di realizzazione di questi lavori a Bellevue, mentre stacca con forza grandi sezioni di lattice dalle pareti dell’edificio, tirando il materiali con le mani, utilizzando anche il peso del suo stesso corpo per agevolarsi. Successivamente l’artista si avvolge in questo skinning e sembra che indossi un mantello, o una seconda pelle, mentre cammina tra le stanze vuote.  
  5. Gottfried Semper,Style in the Technical and Tectonic Arts, or, Practical Ae-sthetics, Getty Research Institute, Los Angeles 2004, 237-248.  
  6. Esistono strette somiglianze tra la radice etimologica delle parole tedesche che indicano “casa”, “rifugio” e “pelle”. La parola usata per “parete”, inoltre, deriva da “avvolgere”, “arrotolare”. 
  7. Heike Munder,Heidi Bucher: Mother of Pearl, JRP/Ringier,Zurigo 2004, 56.  
  8. Il saggio scritto da WillyRotzlere tradotto da Stanley Mason (Willy Rotzler, A Touch of Mother of Pearl, Galerie Maeght, Zurigo 1977). in occasione della mostra di Bucher “A Touch of Mother of Pearl”, presentata alla Galerie Mae- ght di Zurigo nel 1977, descrive il mondo fantastico e onirico di Bucher come delicato e molto vulnerabile, che ha bisogno di essere preservato e protetto. Il saggio prosegue sottolineandone la dimensione specificamente femminile dei suoi lavori, sia per i soggetti scelti, sia per le caratteristiche cromatiche e tattili, e che viene descritta come inusuale in un’epoca di emancipazione femminile.