Michael Borremans
Di Martin Herbert
Da ArtReview Vol 67, no.4, May 2015
Alla periferia orientale di Ghent, in una strada residenziale tutt’altro che vistosa, c’è una stretta villetta a schiera, con una sgangherata porta di servizio in legno. Il nome sul campanello è “Borremans”, vedendolo per la pima volta si potrebbe dubitare dei proprio occhi e chiedersi come uno dei pittori figurativi più importanti della sua generazione possa lavorare da qui. Poi l’artista, un elegante cinquantenne, apre la porta, insieme aggiriamo una Porsche e il giardino si apre davanti a noi e allo studio - uno dei due, il secondo si trova in un altro punto della città, in una cappella del Diciannovesimo secolo restaurata - che Michaël Borremans ha ristrutturato con le sue mani una ventina d’anni fa, prima di diventare famoso.
È quasi il crepuscolo, la fine della giornata lavorativa dell’artista. Prima che da queste grandi finestre non entri più luce, visitiamo una serie di stanze ampie e ben organizzate, un dedalo ordinato di tavoli da lavoro e scaffali, raffinati muri di mattoni che includono uno studio invernale al piano terra e, al primo piano, uno studio estivo con una doppia altezza.
Attraversiamo la nicchia che Borremans usa per scattare le foto da cui trae i suoi dipinti, completata da un fondale in tela e, al momento, da un piccolo animale di peluche dall’aria lamentosa. In un altro spazio, utilizzando materiale da imballaggio e cartoncino, costruisce i set scultorei che stanno alla base dei suoi tesi e sognanti disegni caratterizzati da proporzioni impossibili. Una stanza, aperta sul giardino, è occupata da una Mercedes S-Class vintage di un nero scintillante che sembra nuova di pacca. A un certo punto incrociamo il costume da coniglio per adulti che Borremans ha dichiarato di indossare, a volte, mentre dipinge.
L’archetipico dipinto di Borremans è un enigma seducente, una bouillabaisse di specificità, oscurità, ansia, umorismo e precisione tecnica. In The Devil’s Dress (L’abito del diavolo, 2011) una donna - presumibilmente, visto che non si riesce a distinguerne il volto o il corpo - è stesa a terra, il torso e le cosce coperte da quello che più che un vestito sembra un poligono di cartone, dipinto di rosso. Se il titolo è inquietante, tra le pennellate sontuose ci resta un appiglio almeno parzialmente storico artistico, una conversazione cosciente con Manet, in generale, ma anche con Lezione di anatomia del dottor Tulp (1631) di Rembrandt. Il dipinto riesce in qualche modo a parlare chiaramente e balbettare insieme. Si lega a un pedigree mentre segna una rottura; comunica, con sicurezza, la questione della comunicazione stessa.
Seduto davanti al fuoco, circondato dalle sue chitarre - le copie poco costose di una National Steel e di uno strumento jazz a corpo cavo - Borreman sta spiegando come è arrivato a lavorare in questa maniera strutturalmente astrusa. “E’ davvero una questione filosofica che riguarda ciò che la verità può essere. E la verità esiste tanto in una bugia, quanto in qualcosa di diretto o onesto. Sono arrivato a queste conclusioni in maniera organica, a partire dal modo in cui sin da bambino percepisco il mondo: una varietà di interpretazioni di qualcosa che chiamiamo ‘verità’. E sono sempre stato cauto nei suoi riguardi. Da adolescente mi è arrivata la fascinazione per il cinema. Costruiscono degli scenari; creano la versione finta di qualunque cosa per far sembrare il tutto vero. E se riescono a farlo con quello”, continua, entusiasta della sua stessa diffidenza “lo possono fare con tutto. Averlo vuol dire usarlo. L’allunaggio, le guerre, non puoi saperlo. Quindi nel mio lavoro voglio trasmettere le informazioni in una maniera evidentemente sbagliata, inadatta, fuori posto. Credo sia più onesto”.
Non sbaglia chi in questo percepisce una forte nota di pragmatismo: se non puoi dire ciò che puoi sapere, puoi soltanto dire ciò che non puoi sapere. La pratica di Borreman, snocciolata in questa conversazione, fonde il cercare di raggiungere qualcosa nell’oscurità con il portare a termine il lavoro; definisce, in effetti, il lavoro come un tentativo di raggiungere qualcosa nell’oscurità. E se sei costretto a indossare un vestito da coniglio per dipingere, indossi un vestito da coniglio. Appoggiata vicino a lui, mentre parliamo, c’è una tela recente, un lavoro grande che riempie della complessità caratteristica delle composizioni di gruppi di figure, un unico personaggio con indosso un cappuccio appuntito e nefasto, di un nero lucido, completamente isolato, come nella maggior parte dei lavori di Borremans, su un pavimento che lascia un senso di vuoto. “Ci sono sempre molte allusioni nelle mie opere, qui: la Chiesa Cattolica, il Ku Klux Klan, l’ISIS, le suore, un sacco di cose. Non è esplicito, ma è tutto lì. Ma, sai, non riesco a spiegarlo. Rifletto in modo intuitivo su quello che c’è nella nostra coscienza collettiva, e anche sulla storia dell’arte. Trovo sia un modo di comunicare molto interessante, molto sciolto, ma comunque emotivamente efficiente. Penso sempre all’impatto psicologico che l’immagine che sto creando avrà quando la mostrerò, perché i dipinti vengono fatti nello studio, ma l’atto di dipingere sta nel mostrarli. So qual è, o sto considerando, l’effetto che può avere su un possibile spettatore. Sarà diverso per ognuno, ma voglio deciderne la direzione”.
Borreman non ti lascia mai dimenticare che stai guardando un dipinto. Ti trascina nella palese stranezza di ciò che ha fatto, per poi ricordarti che la trafila interpretativa a cui ti sei sottoposto è al servizio di qualcosa che è oggettivamente privo di significato.
Tornando indietro nella pratica di Borreman fino ad arrivare ai tardi anni ’90, quando prese un anno sabbatico dall’insegnamento per imbarcarsi in un’impresa che era la sua ultima occasione per diventare un artista serio, troveremo delle costanti in quella “direzione”. Per prima cosa, rappresentazioni di ricerche enigmatiche che sfociano nel surrealismo: per esempio in The Pupils (Gli alunni, 2001), dipinto nelle austere sfumature di marrone tipiche del primo periodo di Borreman; da quando i tre alunni del quadro hanno esplorato insoddisfatti quelle teste decapitate un certo grado di colore è poi germogliato nelle sue opere. Una dozzina d’anni dopo, in The False Head (La testa falsa, 2013), il ritratto realistico di una donna bionda, con gli occhi chiusi, si autodistrugge all’altezza del suo collo quando ci si rende conto, senza crederci, che in realtà la sua testa è coperta da una maschera di gomma. In Eating the Beard (Mangiando la barba, 2010), una donna sembra colta nell’atto di masticare o sputare una massa di pittura marrone gocciolante che, leggendo il titolo, immaginiamo essere un grumo di peli facciali. In The Angel (L’angelo, 2013), una donna alta (le cui forme seguono quelle della supermodella e attrice belga Hannelore Knuts), in piedi in un elegante abito rosa chiaro, o forse in camicia da notte, guarda in basso senza espressione, i capelli biondi tirati indietro, il volto cosparso - volontariamente o no - di colore nero. (I bordi del fondale che si trova in studio, si notano in modo evidente: stiamo osservando una macchinazione, su più di un fronte). In The Son (Il figlio, 2013) anche un ragazzo guarda in basso, mentre raggi di luce fibrosa gli escono dagli occhi, ma i raggi in realtà sono soltanto pennellate: Borremans non ti lascia mai dimenticare che stai osservando un dipinto. Ti trascinerà nella palese stranezza di ciò che ha fatto, per poi ricordarti che la trafila interpretativa a cui ti sei sottoposto è al servizio di qualcosa che è oggettivamente privo di significato.
Faccio presente a Borremans un’interpretazione del suo lavoro fatta da Laura Cumming che scrive per The Observer. La Cumming afferma che il suo soggetto primario dev’essere la pittura stessa, perché crea una situazione che sembra avere un prima e un dopo, eppure nessuna delle due cose può esistere, perché si tratta di un dipinto. Risponde in toni affermativi. “Per me è sempre stata quella la magia della pittura. È una finestra su uno spazio in cui non si può entrare che poi è in parte ciò che disorienta di un dipinto. Ho un’educazione da incisore e sto iniziando a farlo di nuovo, da giovane ero bravo, quindi mi muovo nella tradizione di Rembrandt, Manet, Picasso. È un’immagine antica, quella dell’artista-incisore, ma mi piace moltissimo. Ma sono anche un artista del mio tempo” il quale, secondo lui, corrisponde al relativismo post-moderno. “Ho vissuto in quest’epoca, ne ho fatto esperienza, ho raccolto del materiale da lì. Il mio lavoro non sarebbe mai stato possibile in un’epoca pre-concettuale”.
In effetti, molto del piacere che si trae dal lavoro di Borremans deriva dal suo tenere il piede in due scarpe. Seppur dotato di una superba tecnica pittorica, capace di bilanciare un trattamento burroso del colore con una palette fredda, attraversata da sprazzi di rosso e luccicante di toni terrosi, è un pittore figurativo che, alla fine, non dipinge figure vive. Nessuno dei suoi personaggi sembra una persona, piuttosto appaiono come approssimazioni per un complicato stato emotivo o, ancora, per posizioni sulla verità e i suoi malcontenti. Il suo lavoro, quindi, sembra sempre proiettato oltre il confine, è raramente conservatore. In effetti, è in generale difficile che sembri una cosa in particolare, preferendo un irrequieto stato ibrido. L’inquietudine è bilanciata da un umorismo nero o assurdo, a volte più delicato, altre più esplicito, come nell’auto-esplicativo Man Wearing a Bonnet (Uomo che indossa una cuffia, 2005), dove l’umorismo deriva non solo dalle orecchio flosce sul cappellino azzurro indossato da questo adulto, ma anche dalla sua espressione pensosa.
Quando ci incontriamo, Borreman ha appena finito di lavorare a una commissione particolare, il ritratto del cavallo di qualcuno, dipinto, inevitabilmente, a partire da una fotografia. “Il cavallo ci sta guardando”, sottolinea “L’unico quadro che abbia mai fatto in cui veniamo guardati, ed è un cavallo, ma è come un essere umano. Lo trovo divertente. Infatti, il mio lavoro è diventato in generale più umoristico negli ultimi tempi, perché sono più consapevole del fatto che l’umorismo sia necessario. Tendiamo a prendere l’arte sul serio, ed è davvero una cosa seria, ma l’umorismo è un elemento cruciale. In realtà però lo vedo in moltissimi lavori. Lo vedo in Vermeer”, la sua voce acquisisce la sospirante venerazione che la invade quando parla di pittura classica “ma ancora di più in Chardin”. (Si faccia un confronto tra Ragazzo con trottola, 1738 ca., e la discreta bizzarria di Man Looking Down at His Hand - Uomo che osserva la sua mano, 2007).
Ciò che mi affascina, come in ogni pratica artistica che dipende da un approfondimento psicologico che può portare a una comprensione del sé sempre più profonda, è il modo in cui l’artista va avanti, il modo in cui il lavoro non diventa mai meccanica illustrazione, come procede, simile a uno squalo, per non affondare. È chiaro che Borremans ha già attraversato diverse fasi per poi abbandonarle: fasi stilistiche e fasi di chiarimento. Verso la fine della nostra conversazione, gli faccio presente che alcune delle sue opere, nello specifico un nucleo di lavori in cui una figura sembra tranciata all’altezza della vita (e, nel bizzarro film Weight, del 2005, ruota in maniera irrealistica su un tavolo), potessero avere una chiave di lettura in un suo statement, in cui dichiarava che gli esseri umani non sono liberi: “Parliamo di moltissimo tempo fa”, mi dice Borremans con tono piatto. L’anno scorso ha detto ad Art + Auction “ho una dichiarazione da fare. È da anni che la elaboro”. Ciò che si trova, quando gli si fa visita oggi, è uno strano equilibrio, a cui manca uno slogan preciso, l’esercizio della disciplina che vuole liberare un’immagine. Ciò a cui potrebbe portare, oltre alla questione della verità, forse è lasciato in sospeso. Si ha la sensazione che lui sappia e non sappia in che direzione il lavoro stia andando e che questo potrebbe essere un ideale professionale.
Nel suo caso, in quanto pittore moderno, la via verso questo luogo sconosciuto passa per l’utilizzo di strumenti non legati alla pittura. “Il mio materiale primario è una fotografia, o il fermo immagine di un film, che faccio io stesso. Filmo o fotografo il modello o la situazione, gli oggetti di scena e lo sfondo e li sto già dipingendo. Le luci, la composizione, la posizione del soggetto e la cornice, sono fatti con in mente il dipinto. Molta pittura contemporanea ricorda la fotografia, mentre la mia fotografia ricorda la pittura; la macchina serve solo per creare una composizione pittorica. E in effetti anche la mia pittura ricorda delle statue. Qualcuno una volta mi ha detto, quando gli ho mostrato i miei primi disegni, sei uno scultore, e negli ultimi dieci anni ho fatto esperimenti con la scultura - in segreto ovviamente, perché nessuno sta lì ad aspettare che io lo faccia - anche se, la maggior parte, falliscono. Quando ho prodotto Weight, volevo inizialmente che venisse realizzata una scultura che girasse come una bambola. Ma non era abbastanza buona, quindi abbiamo usato una ragazzina di dodici anni molto disciplinata, una ballerina, abbiamo bucato il tavolo e utilizzato un motore. Se fai un film che mostra una scultura, puoi dirigere esattamente lo sguardo dello spettatore. È una forma di controllo. Anche per questo la maggior parte dei miei dipinti sono molto semplici; quando un dipinto diventa complesso, per me è molto difficile riuscire a controllarlo”.
Per Borremans questo sistema funziona. È sinceramente eccitato quando mi accompagna davanti a un tavolo coperto da una serie di nuovi, piccoli, inquietanti disegni di figure danzanti immerse, in modo inusuale per lui, in una sorta di paesaggio che però sembra più un modellino da tavolo coperto da maquette di alberelli. “Peggioreranno ancora. Ci sarà più carne, il vestito salirà. La seconda serie”, dice, “sarà davvero schifosa”. Si ha la sensazione che sappia e non sappia in che direzione il lavoro stia andando, e che questo potrebbe essere un ideale professionale. Torniamo vicino al fuoco e parliamo di come lavorare con i film (ha alcune: “buone idee nel cassetto, ma devo mettermi in contatto con la gente di Hollywood”) sia rilassante per lui, come lo è per, ad esempio, Wilhelm Sasnal. Mi dice che in realtà la sua valvola di sfogo una volta era la musica. “Quindici, vent’anni fa, quando suonavo, avevo bisogno della musica per lavorare bene nel mio studio. Dopo ero come nuovo. Suono la chitarra, ma penso che la cosa migliore sia cantare: lascia uscire il diavolo”. La luce se n’è andata del tutto. Dall’ombra, il cavallo ci sta fissando.