Ed Atkins
di Hans Ulrich Obrist
Da Kaleidoscope n.13, inverno 2011/2012, pp. 138-147
Hans Ulrich Obrist: Volevo chiederti come è cominciato tutto. Come sei arrivato all’arte, o è se è stata l’arte a venire da te? E’ stata un’epifania o un processo graduale?
Ed Atkins: Guardando indietro sembra una cosa abbastanza inevitabile, mi rendo conto di aver avuto dei genitori che, seppur repressi, lavoravano in qualche modo come artisti. Erano un’insegnante di arte in una scuola pubblica e un grafico. Entrambi volevano produrre dei lavori e lo hanno anche fatto in un certo modo, ma erano in una situazione che li fece sentire costretti a fare una scelta che garantisse loro degli stipendi fissi. Forse per rispondere a questo compromesso e alla presenza dell’arte come qualcosa di praticabile ma privato, sono rimasto affascinato dall’arte a prescindere dal pragmatismo.
Per quanto riguarda la mia personale pratica, ci sono stati dei primi goffi tentativi con il disegno e la pittura che esploravo in modo compulsivo. E poi, quasi senza che le due cose si sfiorassero, l’arte contemporanea e l’immagine in movimento sono arrivate dopo un incontro con il cinema strutturale, in particolare quello del filone americano.
HUO: Come Stan Brakhage?
EA: Sì e Hollis Frampton in modo particolare. Credo che il mio primo amore sia stato il cinema mainstream, insieme alla musica, moderata dalla letteratura e dai giochi per il computer… l’arte era semplicemente il luogo in cui potevo riunire queste cose senza farmi troppi problemi. Durante “A Dying Artist” (Un artista morente), l’evento che ho organizzato per l’ICA insieme a Siôn Parkinson durante il weekend di Pasqua, abbiamo proiettato il film di Brakhage che mostra un’autopsia: è stato l’apice di questo festival, concentrato sulla rappresentazione di malattia, morte e creatività. Nel girare l’autopsia Stan Brakhage sembra quasi disinteressato ed è stato assolutamente diretto.
HUO: Il tema della malattia e della morte non è nuovo nel tuo lavoro.
EA: Beh, ad essere onesto, è sia la conseguenza di un’esperienza personale che di un interesse più distaccato per il concetto di materialità nell’immagine digitale in movimento. Tutto ha iniziato a girare intorno al cadavere. I cadaveri sono diventati il modo migliore per guardare alla rappresentazione e, in particolare, alle recenti tecnologie per la rappresentazione. Il cinema industriale sta spingendo verso l’alta definizione e il 3D e allo stesso tempo il corpo del cinema sta scivolando via: niente più celluloide, pellicola o DVD. Ti restano soltanto dei mucchi di codici, che, da un certo punto di vista, vanno semplicemente a infestare supporti diversi. Quindi hai questa iper-materialità dell’immagine, ma non hai più un corpo; hai questo aspetto apparentemente immateriale, che a me ha ricordato un corpo morto, che è insieme presente e assolutamente assente. Materia pesante, densa.
HUO: Renderlo produttivo è quasi una contraddizione.
EA: Per me lo è. Lavorare utilizzando all’interno dell’immagine in movimento l’aspetto materiale-immateriale che avevo appena impostato, è diventato un tentativo di comprendere questa apparente contraddizione. Anche il suono, in particolare la musica, è diventato fondamentale, perché cavalca esplicitamente quell’aspetto. Per esempio, sembra che i primi esperimenti apocrifi di Throbbing Gristle fossero un tentativo di far letteralmente cagare addosso le persone, o farle vomitare, attraverso l’uso di determinate frequenze e toni, provando a dare un corpo a questa cosa invisibile, il suono, tramite lo spettatore. Forse è a partire da questo che è entrato in gioco anche un elemento strutturale: una presenza pesante, con una sua realtà, che non avesse il bisogno di appoggiarsi a, non so, la presenza della celluloide o ad un certa preoccupazione per il modello di proiettore. Si poteva trovare la materia da un’altra parte, ed era possibile che il luogo in cui l’avresti trovata si sarebbe rivelato il corpo dello spettatore.
HUO: Questo ci riporta alla malattia e al recente progetto di mostrare un tumore, che è la produzione di una realtà.
EA: Assolutamente. Una realtà tumorale, il che potrebbe essere particolarmente interessante perché carpire un tumore è veramente complesso. Non puoi toccarlo o odorarlo o sentirlo, almeno non senza la chirurgia. E’ una cosa interna che non si può carpire attraverso i sensi; si può soltanto immaginare…
HUO: Pensi che il tuo lavoro sia connesso all’idea di mutazione?
EA: Si, mi piace molto quest’idea. Il libro, A Tumour (In English) (Un Tumore - In inglese) è parte di una mostra alla Tate Britain: è gratuito e ce ne sono 4000 copie che i visitatori possono prendere liberamente. Quindi le persone lo prenderanno, lo porteranno a casa, lo leggeranno, e 4000 tumori fremeranno di vita. Mi piace questa peculiare negatività…Voglio che il mio lavoro sia terrificante. Credo che questo sia un percorso ben orientato verso la comprensione dell’incarnazione. La vita scorre senza che si pensi mai veramente al proprio corpo; riusciamo a carpire i nostri corpi solo quando siamo nella morsa della malattia o della morte. Il fatto è che il corpo, la materia, avrà la sua rivincita.
HUO: La pittura è mai stata rilevante per te?
EA: La radice della creatività e della malattia per me sta più nella letteratura. C’è un canone in particoalre, quasi un gruppo di persone che si potrebbero associare, semplicemente perché hanno scritto in modo diverso dopo che gli è stata diagnosticata una malattia. Scrittori come Anthony Burgess il quale, dopo essere stato dichiarato malato terminale, produsse incessantemente; un’incredibile proliferazione di opere, tutte urgenti, create con un nuova comprensione acquisita del qui-e-ora, scatenata dall’apprensione per il suo corpo in rovina.
HUO: Quindi hai fatto riferimento agli scrittori e al modo in cui hanno reagito a una malattia terminale?
EA: Esatto, perché questa nuova vita negativa sembra avere gli strumenti per far cadere delle barriere, sia intimamente personali che creative. Forse venendo maneggiati da dottori e infermieri e assistenti e non avendo più alcuna privacy, diventano più onesti nello scrivere.
HUO: Puoi farmi altri esempi oltre a Anthony Burgess?
EA: Di recente, e in modo più saliente per me, Roberto Bolaño. Ha combattuto con la malattia per qualcosa come gli ultimi dieci anni della sua vita, durante i quali ha scritto più o meno cinque romanzi, oltre a un grande quantitativo di altri lavori di prosa, tutti completamente dedicati all’idea che l’arte e la letteratura possano veramente influenzare la realtà fisica; possano uccidere o salvare delle vite. Questo è molto importante per l’arte contemporanea, perché le persone si chiedono giustamente quale sia l’effetto delle opere su una qualunque realtà empirica. Quindi il tumore, il mio tumore artificiale, è al contempo satira e una vera e propria promessa. Non si tratta di una metafora; leggere il libro ti farà venire un tumore. E’ magia. Ci devo credere perché sia efficace, sia come opera che come promessa.
HUO: Parli di letteratura, ma nei tuoi film non ci sono molti testi. Qual è quindi il ruolo della scrittura all’interno della tua pratica? Scrivi molto?
EA: Si. La maggior parte dei miei film iniziano con una sceneggiatura o un testo in prosa più o meno solidi, e poi vengono sottoposti a un processo di astrazione. Spesso inserisco dei sottotitoli che poi rimuovo poco dopo, per sostituirli a volte con una barra bianca…Scrivere per me è il preambolo al movimento dell’immateriale verso il materiale che sto cercando di elaborare. E’ la cavia perfetta: porti in giro un libro, lo strumento di comunicazione più immateriale e anche il più economico. La mia scrittura è incredibilmente eccessiva; uso un linguaggio che trabocca di sostanza e dettagli. E’ una scrittura ingiustificata, in quel senso, mentre l’immaginario che sta alla base dei miei film mantiene un certo grado di moderazione.
HUO: Quindi scrivi un testo per ognuno dei tuoi film?
EA: La maggior parte delle volte vivono in qualche modo insieme a me; non diventano nulla. I film della serie Death Mask (Maschera mortuaria) avevano tutti un copione, e sono poi diventati delle sceneggiature discrete. Ma sono così lontani dal prodotto filmico finito; sono quasi in-filmabili per come sono. Spingono di nuovo verso la letteratura, piuttosto che verso la possibilità di diventare un film. Una sola riga può descrivere una ripresa di sei ore o movimenti che sono impossibili per la camera e per il corpo della persona che la tiene… Scrivere è il mio modo di pensare; penso attraverso la scrittura. Non disegno per pensare. Faccio degli schizzi, ma non li uso per pensare. Sono l’opposto del pensare.
HUO: Mostri mai questi disegni?
EA: Si, a volte. Ma trovo davvero difficile capire il momento in cui il processo, che è poi l’essenza del disegno, diventa una cosa completa in se stessa, e quando questo può andarmi bene.
HUO: Death Mask è l’inizio del tuo catalogo ragionato?
EA: Lo sento davvero come la prima espressione completamente definita di ciò a cui sto pensando. Ma devo dire che, per certi versi, non ragiono mai veramente in quel modo, tenendo sempre un occhio su quello che lascerò ai posteri. Dal mio punto di vista la maggior parte delle cose si perdono. Solo le cose del presente restano importanti, vitali. Qui-e-ora. Il complesso dei lavori di Death Mask è stato la prima spinta verso questo corpo gonfio e morto e questa rappresentazione della materia. Risale anche a quando è morto mio padre, quindi, da parte mia, ci ho investito qualcosa di molto personale. Stranamente, stavo già leggendo di cadaveri, in modo particolare in Blanchot, e poi a mio padre venne diagnosticata una malattia terminale, e morì poco dopo. Mi stavo relazionando con i cadaveri in quanto oggetti, simboli e surrogati, e poi accadde questa cosa…Standogli così vicino ti rendi conto che l’espressione e la rappresentazione della morte sono sempre personali. Quando qualcuno dice “il cadavere”, sta parlando di una persona reale. Parlano di qualcuno che conoscevano, che ora è morto. Questa cosa ovviamente l’ho presa da Blanchot. Ci sono dei momenti incredibili nei suoi scritti, in cui fa riferimento al corpo morto e descrive il momento in cui lo stringi tra le braccia; il che vuol dire che ha tenuto tra le braccia qualcuno che conosceva, mentre moriva o era già morto. C’è qualcosa di squisitamente personale nella descrizione della morte. Era una delle cose che sia io sia Siôn Parkinson volevamo davvero ottenere per “A Dying Artist”, l’evento che abbiamo organizzato all’ICA per il weekend di Pasqua: un sacco di persone diverse che parlano di malattia e morte.
HUO: Questo ci porta in argomento per parlare di te come curatore. Puoi raccontare cosa significa per te curare una mostra?
EA: Penso che parte della ragione per cui un buon numero di artisti contemporanei, più o meno giovani, si approcci naturalmente all’appropriazione sia la sua connessione con il modo in cui le informazioni vengono condivise. Parliamo sempre più raramente di appropriazione ormai, perché è così apparentemente ovvia. Per me, curare o mettere insieme le opere di altre persone è un’esperienza formativa rinvigorente, a tratti perfino generosa. La ricerca diventa il lavoro, ma diventa anche un modo per unire le persone. All’ICA, per esempio, abbiamo invitato Brian Dillon a parlare di ipocondria messa in relazione con la creatività e lo spazio che la malattia potrebbe creare e questo si è trasformato in uno splendido involucro per The Singing Detective (Il detective che canta), che è diventato devastante una volta associato a Deadly Tales (Racconti mortiferi) di Griselda Pollock e a Cancer (Cancro), il video di Bonnie Camplin. Tutti quelli citati sono lavori estremamente personali e soggettivi che si appellano a un’esperienza condivisa.
HUO: Puoi raccontare come è nato il ciclo Death Mask e come cambia da un film all’altro?
EA: Per Death Mask I e II sono partito da due sceneggiature. La prima era chiaramente per un film biografico su Madam Tussaud che per me era diventata una figura cardine, semplicemente perché la vedevo in uno strano luogo a metà tra l’estrema vicinanza con una morte incredibilmente reale e raccapricciante, e la commemorazione e rappresentazione creativa della stessa. La seconda che accompagna il video The Scent (L’odore), è un altro lungometraggio biografico, questa volta di Alfred Wallace, un naturalista britannico che, tra le altre cose, ha scritto di un frutto chiamato durian, che puzza di carne putrescente. E’ grande più o meno quanto il cranio di una persona adulta, ma è coperto di spine affilate. Il film si concentra sulla rappresentazione del cadavere e di quando questa possa avvicinarsi alla cosa reale. L’odore del cadavere prescinde dalla fotografia del corpo…
HUO: Nel mondo occidentale la morte è diventata invisibile…
EA: E sterile. Nella mia esperienza personale, gli impresari delle pompe funebri ti accompagnano altrove mentre si occupano del corpo. Ti lasciano osservare il processo solo fino ad un certo punto, ed è per questo che il film di Brakhage è ancora così incredibilmente scioccante, pur essendo assolutamente realistico; semplicemente, rende visibile qualcosa che solitamente è invisibile.
HUO: Un tabù.
EA: Esatto, ed è pazzesco quanto quel mondo sia ancora tabù.
HUO: In Death Mask III, c’è una testa fluttuante che ricorda i Kraftwerk.
EA: Sì, viene da A Tumour (In English). Suppongo sia una specie di logo. Ricorre spesso anche l’immagine di una testa vista da dietro, che appare in quasi tutti i video e che per me ha il ruolo di pseudo-protagonista. Trovavo molto difficile filmare il volto di qualcuno. Avevo la sensazione che, nell’istante in cui appariva un volto, ci fosse un collasso. Il volto diventa il centro dell’immagine; finisce con il definire ogni cosa. Non riesci più a notare la struttura, i dettagli che circondano e supportano quell’apparente culmine. Il retro di una testa rappresenta anche qualcuno che sta guardando dentro qualcosa, desideriamo che si giri, collassi, diventi narrativa, ma resisterà sempre a quel desiderio. Suppongo sia una politica che ho ereditato dall’immagine in movimento strutturale e critica. Al contempo, ci sono aspetti di quella stessa politica che non posso usare: innanzitutto, non conosco i meccanismi della macchina che sto utilizzando. C’è stato un determinato gruppo di artisti capace di manipolare la celluloide, cosa che gli permetteva di essere onesti. Ma io non posso essere onesto per ciò che riguarda i film in digitale. Non so come funzionano. La verità mi sfugge. E’ uno scenario magico, ma mostra anche la mia ignoranza.
Death Mask III si è espanso, fino a raccontare l’accettazione di una perdita più ampia, e del decadimento fisico: questa vasta, dolorosa, perdita, che ha da un lato un aspetto spirituale e dall’altro il peso morto della materia.
HUO: A Primer for Cadavers (Un primer per cadaveri), che è il seguito di Death Mask, parla di nuovo di morte e cadaveri. All’inizio c’è quella strana acconciatura…
EA: Si, rifrange nelle lenti di un caleidoscopio. Filmando in digitale, sto anche usando queste pesantissime lenti in vetro che sono parecchio vecchie e creano sicuramente un effetto datato; il modo in cui permettono di elaborare le immagini è molto diverso da qualunque cosa si possa ottenere con After Effects o altri software di post-produzione digitale.
Non sono ancora stufo della figura del cadavere. E’ così satura, il che forse è un problema. Il cadavere è il centro di tantissima apprensione sensoriale. L’odore, il peso, la vista, tutto ciò che lo riguarda: sembra l’apice dell’esperienza. A Primer for Cadavers è stato il mio tentativo di far questo: sovraccaricare, evocare un cadavere, non a partire da una persona, ma dal nulla.
HUO: C’è anche una frase molto strana, una sorta di “discorso lacero”. Ha in se qualcosa di entropico.
EA: Si, ci sono un sacco di cambi che vanno da un’intimità interiorizzata, incredibilmente vicina, al movimento planetario; una corsa improvvisa da un’enorme e ampissima vastità, a un dettaglio molecolare. Ricorda l’essere infinitamente grande e infinitamente piccolo di Pascal: nel loro essere incomprensibilmente estremi, sono la stessa cosa. E questo ricorda invece la duplice visione dell’immaginario secondo Blanchot: il cadavere oscilla tra l’abietta materialità fisica e la spirituale immaterialità.
HUO: Continuo a pensare alla pittura, a Holbein e al suo famoso dipinto esposto al Kunstmuseum di Basilea, dove si vedono il cadavere e la bara. Ciò che vedi ti guarda e ciò che ti guarda è quello che vedi. Quindi in qualche modo, immagini di essere il cadavere (sia tu) stesso.
EA: Si è molto interessante. Di nuovo, questo ha senso parlando di una vicinanza con la morte. Non possiamo carpire il lavoro dal punto di vista dei cadaveri, ma ci possiamo avvicinare. Posso farti venire un tumore, possiamo raggiungere una certa velocità terminale. Questi momenti in cui il corpo ti tradisce e cede alla malattia, quando ti senti vicino alla morte per una qualche abiezione corporale, questa prossimità è un’area straordinaria da cercare di vivere con il proprio lavoro, dove puoi toccare la morte, puoi sentire l’odore del tuo fecondo decadimento.
HUO: Questo vale anche per il tuo lavoro Delivery to the Following Recipient Failed Permanently (La consegna al seguente destinatario è fallita in modo permanente)?
EA: Si. Il titolo viene da un’esperienza fatta un anno dopo la morte di mio padre, quando non lo avevo ancora rimosso dalla mia mailing list. Un giorno mi è tornato indietro un messaggio con scritto semplicemente “delivery to the following recipient failed permanently”. La sua mail era stata finalmente chiusa perché non veniva più usata. Improvvisamente c’è stato un momento, un ritorno, un ritardo, generato automaticamente, casualmente, e ha avuto su di me un effetto emotivo immenso.
HUO: Una delle cose che hanno in comune tutti i film è questa barra rettangolare astratta. La consideri un’astrazione personificata?
EA: E’ diverse cose. Pragmaticamente, era posizionata nel punto in cui ci dovrebbero essere i sottotitoli. Era un modo per rendere i sottotitoli fisicamente presenti quando non c’erano, così da integrarli della diegesi, invece di averli sopra o al di fuori di essa. E’ anche un’immagine ricorrente, come la testa vista da dietro, che per me è diventata importante. Queste cose sono residui di altri lavori, come scorciatoie che mirano all’assenza delle parole, ma anche all’assenza di una narrazione o alla presenza nascosta della narrazione. Offuscare le cose… dietro a queste barre, ci potrebbero essere delle parole, cose che potrebbero definire l’immagine. Ma invece quel linguaggio è bloccato.
HUO: Le barre sono spesso monocromatiche. Come arriva il colore?
EA: A volte i colori sono semplicemente estratti dalla palette delle immagini che stanno dietro le barre. E’ un procedimento digitale, si usa Pohotoshop per inserire qualcosa nell’immagine. Sto continuando ad addentrarmi nel mondo digitale. Ciò che trovo interessante è che faccio tutto su un portatile. Non ho uno studio; ho qualche hard disk esterno e un portatile. E anche se questa è una necessità economica, è diventato importante per me mantenere, almeno per ora, questa stratificazione delle cose. Come succede con i sottotitoli e le colonne sonore, le cose iniziano ad accumularsi in un sedimento denso che è molto simile al modo in cui lavoro. Si accumulano fino a creare spessore, dal nulla alla materia.